LA PIAZZA DI GRECCIO

Greccio, dicembre: prima rappresentazione del presepe

A questo proposito dobbiamo raccontare, richiamando devotamente alla memoria, quello che realizzò tre anni prima della sua gloriosa morte, a Greccio, il giorno del Natale di nostro Signore Gesù Cristo. C'era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne. Circa quindici giorni prima della festa della Natività, il beato Francesco lo fece chiamare, come faceva spesso, e gli disse: «Se vuoi che celebriamo a Greccio l'imminente festa del Signore, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei fare memoria di quel Bambino che è nato a Betlemme, e in qualche modo intravedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato; come fu adagiato in una mangiatoia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello». Appena l'ebbe ascoltato, quell’uomo buono e fedele se ne andò sollecito e appronto`, nel luogo designato, tutto secondo il disegno esposto dal santo.
E giunge il giorno della letizia, il tempo dell'esultanza! Per l'occasione sono qui convocati frati da varie parti; uomini e donne del territorio preparano festanti, ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per rischiarare quella notte, che illuminò con il suo astro scintillante tutti i giorni e i tempi. Arriva alla fine il santo di Dio e, trovando che tutto è stato predisposto, vede e se ne rallegra. Si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l'asinello. In quella scena si onora la semplicità, si esalta la povertà, si loda l'umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme.
Questa notte è chiara come pieno giorno e deliziosa per gli uomini e per gli animali! La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima, davanti al rinnovato mistero. La selva risuona di voci e le rupi echeggiano di cori festosi. Cantano i frati le debite lodi al Signore, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia.
Il santo di Dio è lì estatico di fronte alla mangiatoia, lo spirito vibrante pieno di devota compunzione e pervaso di gaudio ineffabile. Poi viene celebrato sulla mangiatoia il solenne rito della messa e il sacerdote assapora una consolazione mai gustata prima.
Francesco si veste da levita, perché ́ era diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora è un invito per tutti a pensare alla suprema ricompensa. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme. Spesso, quando voleva pronunciare Cristo con il nome di «Gesù», infervorato d’immenso amore, lo chiamava «il Bambino di Betlemme», e quel nome «Betlemme» lo pronunciava come il belato di una pecora, riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto. E ogni volta che diceva «Bambino di Betlemme» o «Gesù», passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e deglutire tutta la dolcezza di quella parola.