societa

Ravasi: Assediati da sofferenze e domande

Cardinal Gianfranco Ravasi Archivio Ansa
Pubblicato il 09-05-2021

Il mostro del male è personale e sociale, fisico e morale

Il mostro del male è proteiforme perché non è solo personale ma anche sociale, è fisico e morale, è storico e cosmico (con le calamità naturali), e quindi anche l' assalto alla fortezza simbolica in cui è ben riparato non può affidarsi a stanche e stantie predicazioni teologico-filosofiche univoche. È quello che promettono gli amici teologi di Giobbe con la loro teoria retributiva (delitto-castigo), bollata dal grande sofferente come un «decotto di malva» (6,6), incapace di curare il dolore.

Ebbene, è proprio ancorandosi a questo libro biblico straordinario che uno dei nostri teologi più raffinati, Giacomo Canobbio, ha approntato non solo uno sguardo panoramico sull' anelito incessante dell' umanità, desiderosa di spalancare il portale di quella roccaforte, ma ha anche tentato un bilancio sulle vie più promettenti, premettendo sempre una riserva. La sua, infatti, è la scelta di rinunciare ai pensieri troppo sistematizzanti e di non spogliare Dio del suo mistero che forse proprio nel male ha una sua paradossale teofania. Tra l' altro, è proprio a questo che approda il libro di Giobbe.

 

Quello di Canobbio è un saggio breve e denso, eppure limpido e prezioso che consigliamo a tutti, in primis ai credenti, ma anche a chi trova nel dolore la roccia dell' ateismo. Facile è disegnarne la mappa posta all' insegna della domanda radicale: Perché Dio ci lascia soffrire? Fermo restando che non pochi la declinano anche con un: «Perché Dio ci fa soffrire?». Ed è facile ricordare quello che già obiettava Epicuro, citato dallo scrittore cristiano del III-IV secolo, Lattanzio: «Se Dio vuol togliere il male e non può, è impotente. Se può e non vuole, allora è ostile nei nostri confronti. Se vuole e può - e solo questo s' addice a un Dio - perché allora esiste il male e non è eliminato da lui?» (De ira Dei 13).

Dicevamo che è facile delineare la struttura dell' opera; è, però, arduo isolarne la ricchezza, nonostante le poche pagine di questo pocket della collana «Il pellicano rosso» (Morcelliana). Due sono i percorsi su cui l' autore avvia il lettore. Il primo è quello delle principali risposte che nei secoli sono state elaborate con dispendio di energie intellettuali e anche spirituali. C' è appunto il modello catartico retributivo a cui sopra abbiamo alluso con gli amici di Giobbe: se soffri è perché hai peccato. Modello spazzato via senza esitazione già da Cristo davanti al paradosso del cieco nato. C' è la lettura pedagogica che vede nel soffrire una paideia, come è suggerito ad esempio dalla neotestamentaria Lettera agli Ebrei: «Sul momento ogni educazione (paideia) non sembra causa di gioia ma di tristezza. Dopo, però, arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati» (12,11).

Infine si propone la concezione salvifica, ancorata alla figura di Cristo paziente sulla croce per cui, come confessa Paolo ai Colossesi, noi «diamo compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (1,24). Una trilogia di proposte, scelte ovviamente tra quelle teologiche, delle quali Canobbio segnala pregi e nette insufficienze. A questo punto, però, egli non si rassegna a sostare davanti a quel picco roccioso e tenta di scalarne qualche balza, con un' attrezzatura teologica flessibile e non rigidamente assertiva. Non si dimentichi, infatti, che i primordi di questa disciplina sono stati la «teodicea», cioè il tentativo di tutela legale di Dio contro gli accusatori che puntavano l' indice con l' accusa di essere lui il responsabile del male. È questa la seconda parte del saggio di Canobbio.

In questo percorso non è inutile neppure la negazione o la rivolta alla maniera di Ivàn Karamazov e del dottor Rieux della Peste di Camus. Così come non lo è certamente la protesta rovente, a tratti persino blasfema, di Giobbe che non rigetta Dio ma lo interpella duramente, costringendolo a deporre in sede processuale, non accorgendosi che, così, si mette al livello stesso di Dio. C' è anche la resa che non è alzare le mani ormai impotenti, ma riconoscere che può esserci un'«eccedenza» del male che riesce a essere collocata in una metarazionalità trascendente, superiore alla pur nobile razionalità della nostra scatola cranica. In questa linea di resa si può innestare un ossimoro, la resistenza a Dio del credente, alla maniera di quell' emozionante racconto di Zvi Kolitz Yossl Rakover si rivolge a Dio (Adelphi): «Mi puoi offendere, mi puoi colpire, mi puoi togliere ciò che di più prezioso e caro posseggo al mondo, mi puoi torturare a morte, io crederò sempre in Te. Sempre Ti amerò, sempre, sfidando la Tua stessa volontà!».

Non per nulla Resistenza e resa s' intitolava il toccante diario dal carcere del teologo martire del nazismo Dietrich Bonhoeffer. Da qui le vie di Canobbio s' allargano a raggiera nei percorsi più fiduciosi dell' invocazione insistita e insistente, della speranza-attesa-promessa, della compassione in cui la speranza diventa «cooperazione» ad alleviare le sofferenze, come appare nella luminosa parabola evangelica del Buon Samaritano. Questi squarci che abbiamo aperto sul libro di Canobbio sono in ultima analisi un appello a continuare la domanda e la ricerca instancabile perché, come cantava Eliot nei suoi Quattro quartetti, «la gente cambia, e ride, ma the agony abides», l' agonia-lotta perdura. (Il Sole 24 Ore)

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