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L’uomo non è un lupo e la cooperazione ci farà vivere meglio

Redazione notizie.it
Pubblicato il 25-07-2019

Istituto Serafico, Francesca Di Maolo: pronti a prenderci cura di lui

La vita è per sua costituzione un’esperienza sociale, gli organismi a tutti i livelli del vivente sono coinvolti in interazioni sia con i propri simili sia con altri e diversi organismi; alcune di queste interazioni sono vantaggiose, benefiche e cooperative, mentre altre sono cariche di contrasti e conflittualità.

Charles Darwin pensava alla cooperazione in termini problematici, quasi come fosse una sfida alla propria teoria sul ruolo della selezione naturale. La selezione naturale in genere favorisce l’evoluzione di comportamenti che aumentano l’idoneità (la fitness) degli individui. Il comportamento cooperativo, in apparenza, fa aumentare l’idoneità di chi è gratificato, di chi riceve, e non di chi dona, così in pratica contraddicendo la logica darwiniana.

Fu tuttavia un convinto darwinista, un grande biologo britannico, William DonaldHamilton a risolvere il rompicapo, dimostrando che la cooperazione può ben evolversi se i cooperanti direttamente beneficiano altri cooperanti, in altre parole se il comportamento cooperativo è rivolto non in maniera generica ad altri individui, ma è selettivamente diretto a favorire altri cooperanti.

In biologia questo comportamento (detto assortimento selettivo) è quello che più frequentemente si osserva tra gli animali nelle forme di «reciproco mutualismo» e «selezione parentale». In ambito umano si osservano entrambe queste modalità, anche se gli scopi, la dimensione e la variabilità della cooperazione umana sono di gran lunga più rilevanti, rispetto a quello che si osserva in altri mammiferi, per via dello stabilirsi di norme derivate culturalmente, in ambito sociale.

È molto probabile che nelle antichissime società di cacciatori/raccoglitori lo stabilirsi di modalità cooperative per la caccia e il raccolto abbia costituito un grande vantaggio per il gruppo interessato, poiché aumentava di molto la resa di quelle attività rispetto a quanto avveniva nei gruppi entro i quali gli individui non cooperavano.

La nostra specie, Homo sapiens, è apparsa circa 200 mila anni fa e circa 50-60 mila anni fa è uscita dal Corno d’Africa, colonizzando il pianeta intero (anche se un recente studio pubblicato sulla rivista «Nature», relativo a un reperto ritrovato in Grecia, porterebbe retrodatare di molto il suo arrivo in Europa): questo successo è dovuto in gran parte alla nostra capacità di cooperare, che si è andata evolvendo in tempi recenti.

Sino a circa 10 mila anni fa gli uomini vivevano in piccoli gruppi di cacciatori/raccoglitori, che includevano diverse unità famigliari. Il cibo, selvaggina cacciata dai maschi e piante selvatiche raccolte dalle femmine, veniva portato al campo e diviso tra i vari membri, anche non in relazione di parentela. In questo modo il gruppo si assicurava di avere sempre a disposizione del cibo, anche quando la caccia, dagli esiti altamente aleatori, non procurava risorse.

È evidente che una caccia fortunata fruttava di tanto in tanto una quantità di cibo in eccesso (e che non poteva di certo essere conservato) rispetto alle necessità e pertanto l’eccedenza poteva tranquillamente essere divisa anche con i membri non in relazione di parentela; in altri termini il rapporto costi/benefici di un simile comportamento favorisce l’instaurarsi di una cooperazione.

Anche la raccolta e il consumo di specie vegetali sono massimizzati da attività cooperative: le piante raccolte devono essere in qualche modo trattate per detossificarle o comunque cotte per aumentarne la digeribilità. Inoltre l’analisi della storia del ciclo vitale di Homo sapiens chiarisce che c’è la cooperazione tra membri alla base del successo riproduttivo: alta fertilità, breve intervallo tra le nascite e lungo periodo di dipendenza dei piccoli dai genitori costituiscono una specificità riproduttiva problematica per una donna che deve provvedere a diverse generazioni, energeticamente dispendiose (i bimbi mangiano molto!) e in sovrapposizione.


La suddivisione delle responsabilità tra madri del gruppo, cioè l’allevamento cooperativo, assicura un grande vantaggio ai gruppi che la adottano. È evidente che l’affermarsi di questi comportamenti è ben meglio spiegato in termini di processi di evoluzione culturale che generano assortimenti tra cooperanti, come emerge dagli studi di Luigi Luca Cavalli-Sforza. E dunque non è affatto vero, come spesso si vuole far credere, che l’indole umana è per natura «cattiva»

 I detti popolari tendono a volte a rinforzare idee che a un’analisi scientifica si rivelano infondate. È questo il caso di famose espressioni quali homo homini lupus e mors tua vita mea, che danno per scontato quello che scontato non è. Già solo attribuire al lupo l’indole distruttiva e crudele dell’assassino rivela la totale ignoranza dell’elaborata e sofisticata liturgia ritualizzata di gesti, comportamenti, atteggiamenti, vocalizzazioni, segnali di varia natura intesi a «comunicare» la propria sottomissione da parte di un contendente all’altro, elaborati da questa specie e impiegati proprio per evitare inutili stragi.

La lotta, la competizione, ha un termine ben preciso, quando uno dei due avversari si rende conto di essere soccombente e «comunica» con uno specifico linguaggio gestuale al vincitore di volersi ritrarre: allora i due prendono atto della gerarchia sociale stabilita, non scorre sangue. Il proverbio fa invece riferimento, travisando l’indole del lupo, a una condizione dell’esistenza umana connaturata all’istinto di sopraffazione nei confronti dei propri simili. I bestiari medievali sono pieni zeppi di rappresentazioni del genere.

Ed è questa un’idea che oggi fa comodo per convincere che la tua morte è la mia vita, che quindi soltanto comportamenti opportunistici di egoismo e di esclusione dei propri simili (sino alla loro eliminazione) possono garantire il benessere raggiunto da pochi a scapito dei molti, ai quali non viene neppure riconosciuta una condizione umana, così che si possono legittimamente escludere o eliminare o lasciar morire in quanto «avversari».

Questa idea è difficile da scalfire, ma si tratta di un aspetto che è bene chiarire in tempi tanto difficili, nei quali assistiamo alla costruzione di barriere di ogni tipo, dimentichi dell’esortazione di Italo Calvino a non elevare muri, per non restarne prigionieri, e a capire che oltre i muri si incontrano diversità e ricchezze. Questa riflessione vale sia nell’esperienza della vita individuale sia in quella sociale, collettiva.

Appunto Calvino, nel libro Il barone rampante (1957), ammoniva: «Se alzi un muro pensa a ciò che resta fuori». Non innalzare barriere deve divenire la pratica del nostro agire, così come occorre ricordare che cosa è accaduto alla costruzione della Torre di Babele (progetto ambizioso di uomini che avrebbero voluto scalare il cielo per raggiungere il trono della divinità): impresa fallita per la frammentazione dell’umanità «tutta», a causa dell’incapacità di riconoscersi e del tramonto della lingua comune, entrambi fattori alla base dell’impresa e a fondamento dell’agire collettivo.

Nella pratica del vivere il motto mors tua vita mea si rivela un boomerang auto-distruttivo. Quindi le vicende umane non si sviluppano proprio come ci viene raccontato da molti illustri autori. Anche se il filosofo inglese Thomas Hobbes se ne dispiacerebbe molto, recenti studi comparsi quest’anno sulla rivista «Current Biology» rivelano che la natura umana non è di base egoista e crudele, con l’istinto di sopravvivenza e quello di sopraffazione ad accendere conflittualità perenni in una guerra di tutti contro tutti (il famigerato bellum omnium contra omnes).

La distruttività e la conflittualità che vediamo tanto diffuse nel nostro tempo sono l’effetto di processi sociali e storici e sono pertanto reversibili. Non va poi dimenticato che è grazie alle strategie di reciprocità se oggi siamo qui a disquisire di cooperazione e conflitti:abbiamo fatto scomparire l’uomo di Neanderthal, ma dopo averci fatto sesso. Sì, il nostro genoma contiene ancora circa un 1,5 per cento di Dna neanderthaliano. Ecco perché soffriamo di diabete, ad esempio: per un cacciatore/raccoglitore è importante tenere alto il tasso ematico degli zuccheri, perché mangia una volta ogni tanto, ma per un agricoltore che mangia tutti i giorni questo è un male.

Inoltre è molto probabile che la presenza dell’osso ioide (l’unico osso che non articola con altre ossa; un ossicino impari posto alla radice della lingua e solidale alla laringe), che permette la pronuncia delle vocali, abbia permesso lo sviluppo della tecnica più potente inventata dall’uomo: il linguaggio. Senza vocali, il linguaggio del povero Neanderthal non poteva certo permettere quelle sofisticate comunicazioni tra membri dello stesso gruppo utili a spiegarsi per adottare comportamenti di mutualismo nelle attività sociali (conflitti con altri gruppi, operazioni relative all’agricoltura e così via).

Di conseguenza i gruppi di Homo sapiens altamente cooperanti, dopo aver fatto sesso ed essersi ibridati con il Neanderthal, nella competizione tra gruppi lo hanno eliminato. E dunque, se pure qualche azione di puro egoismo accade all’interno del gruppo (tutte le mattine del mondo ne siamo vittime), i gruppi altruisti vincono la battaglia su quelli dove vige soltanto egoismo. È la soluzione del classico «dilemma del prigioniero», nel quale se ogni giocatore fa la scelta egoisticamente migliore per lui, la situazione globale risulta essere meno preferibile per tutti e ciò stimola un comportamento cooperativo.

Conviene sempre ricordarsi e ricordare ai giovani che in prima istanza il «battitore libero» può anche guadagnare qualche cosa, ma in seconda e ultima istanza, lo dice la biologia, porterà a casa solo quella che lo scienziato americano David Sloan Wilson chiama sucker pay-off, ovverosia «la paga del babbeo». Essere generosi conviene.


Carlo Alberto Redi - Corriere della Sera
Illustrazione a cura di Massimo Caccia

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