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Diventeremo digitali e solidali

Bruno Ruffilli Pixabay
Pubblicato il 24-07-2020

Floridi: è ora di trasformare la politica

«Il meglio che oggi possiamo aspettarci dalla politica è una buona amministrazione dello status quo», dice il filosofo Luciano Floridi in video collegamento da Oxford, dove vive e lavora. «Ma la realtà ci pone sfide enormi, e allora serve una politica ambiziosa, con una visione e una governance». Così, ne Il verde e il blu (Raffaello Cortina, pp. 278, 16 euro) Floridi applica alla politica un concetto sviluppato in altre opere, quello di onlife, ossia una vita sempre connessa in cui il digitale è reale e il reale è anche digitale. Ne nasce una sorta di manifesto per la politica del Terzo Millennio, che poggia sul verde dell'ecologia e sul blu del digitale.

Che cosa manca alla politica attuale?
«La capacità di assumersi la responsabilità di progettare e fare errori. Di provare a coordinare le esigenze di tutti, con la consapevolezza che alla fine qualcuno necessariamente sarà scontento. In Italia si elargiscono mance, come faceva la DC: alle famiglie, al sindacato, a Confindustria, a tanti altri, e si spaccia questo per un progetto. Un approccio miope, che crea un debito sempre maggiore verso il futuro, dimenticando che il futuro siamo noi, le nostre figlie e i nostri figli».

In un articolo perLa Stampa, Elsa Fornero ricordava la Bibbia: «I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati», per loro non rimarrà niente.
«È questo il fantasma che si aggira per l'Europa, per citare Marx. Non il comunismo, ma le future generazioni, dalle quali possiamo prendere in prestito, ma che non votano».

Lei parla di un «trust universale», dove nasciamo e viviamo come nodi in una rete di relazioni. Di che si tratta?
«C'è la percezione errata che tutto inizi e finisca con noi. Invece la lingua, i costumi, la politica, le istituzioni e in generale il mondo che troviamo non sono nostri: li ereditiamo, dobbiamo trattarli con cura e lasciarli a chi verrà dopo meglio di come li abbiamo trovati».

Dalla res publica alla ratio pubblica. Che significa?
«La res publica si esaurisce nelle cose: i votanti, i partiti, l'acquisto e lo scambio di consenso. Una visione atomistica della società, che forse non funzionava nel secolo scorso e che oggi non ha senso, perché quello che conta sono i servizi: Rolls Royce, ad esempio, guadagna più dal service per i motori di aerei che dai motori stessi. Così la ratio publica considera le relazioni, prima delle cose».

Quali sono le conseguenze?
«Significa spostarsi da una dimensione agonistica a una collaborativa. Quando qualcuno si candida "scende in campo": è davvero una partita di calcio, dove uno vince e l'altro perde? La destra l'agonismo ce l'ha nel Dna, col libero mercato e la competizione, la sinistra lo ritrova nella lotta di classe, e alla fine usano lo stesso vocabolario. Eppure esiste anche una politica della solidarietà e della cooperazione. Uno spazio di discussione e progettualità dove si può non essere d'accordo, ma si cercano punti comuni e si costruisce su quelli. Allo "scendere in campo" preferisco "venire a dare una mano", come per una festa».

Col digitale si potrebbe realizzare una democrazia diretta, senza intermediari. Invece devono esserci, dice lei: non è un difetto della democrazia, ma il modo in cui funziona.
«L'idea - vecchissima - è che la democrazia diretta sarebbe la migliore forma di governo possibile, se fosse realizzabile; non lo è, dunque ci accontentiamo di quella rappresentativa. Ora la democrazia diretta si può fare, ma alla retorica del populismo digitale si contrappone il fatto che questa separazione tra chi ha il potere e chi lo esercita è essenziale. Il potere è del popolo, che lo delega ai politici sulla base di un progetto: se fanno un buon lavoro bene, altrimenti passa a qualcun altro. La democrazia diretta è solo una forma di democrazia partecipativa, ma non la migliore perché ci coinvolge quando tutto è già deciso. La complessità delle scelte viene sminuita e ci si riduce a "Sì Tav", "No Tav". Invece bisognerebbe chiedere ai cittadini di partecipare fin dall'inizio del processo decisionale».

In Francia i Verdi sono andati bene alle ultime elezioni: questo può dirci qualcosa della situazione in Italia?
«A volte pare ancora valida l'equazione verde uguale luddismo, ma il luddismo sarebbe un suicidio per l'Italia: bisogna puntare sul digitale per creare un'economia circolare in cui nulla viene buttato e tutto riciclato, si consuma meno e meglio. Spero che i verdi francesi abbiano un approccio più pragmatico verso la tecnologia».

La filosofia si occupa di politica da millenni. Tuttavia l'applicazione pratica di ideali filosofici spesso si traduce in grandi delusioni: come mai?
«La politica è l'arte del compromesso, ma se non proviamo a realizzare gli ideali abbiamo già fallito in partenza. Se invece sbagliamo per averci provato, almeno possiamo imparare dai nostri errori e da quanto avremmo voluto fare ma non siamo riusciti a realizzare. Bisogna mettere l'asticella alta, se si vuole saltare più in alto».

A parte il verde, il governo come va sul blu? Ci sono lo Spid, l'app Io e diverse altre iniziative sul digitale.
«L'Italia è al 24° posto del Digital Economy and Society Index (DESI), in terzultima posizione tra i Paesi dell'Unione Europea. Abbiamo la più alta densità di smartphone al mondo, ma li usiamo per Whatsapp. Il Governo, a mio parere, si muove nel verso giusto, ma ci vuole attenzione a non creare cittadini di serie A e di serie B, a non limitare i servizi digitali a chi ha connessione, dispositivi e conoscenze per utilizzarli: servono alternative alla portata di tutti».

La nuova politica in Italia ha già un volto?
«Mi piacerebbe pensare che sia quello dell'ex segretario della Fim Cisl Marco Bentivogli, ma come facciamo a convincerlo? (La Stampa)

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