Le visite dei pontefici
Il Custode ha evocato la testimonianza e il sacrificio del sacerdote che ha rinunciato al respiratore " il dono di sé per far vivere il popolo", questo il senso dell'Eucarestia
Nna Basilica vuota, ma con le mani ricche dell'anelito degli uomini di oggi. In questa atmosfera il custode del Sacro Convento di Assisi, padre Mauro Gambetti, nella solenne e sobria Celebrazione vissuta dalla Comunità Francescana ha proposto la seguente riflessione omiletica:
La Pasqua ebraica si celebra cenando insieme, riuniti attorno al capofamiglia, per far memoria della liberazione dall’Egitto: la morte non entra nella casa, nei cuori, grazie al sangue dell’agnello. Similmente, Gesù, l’Agnello di Dio, mangia la Pasqua con i suoi familiari – i discepoli –, per mostrare a loro – e a noi – che la morte non ha il potere di annientare la vita donata per amore.
Gesù riunisce per l’ultima volta i suoi discepoli, quelli che, davanti alla difficoltà di comprendere il duro discorso di Gesù sulla sua carne e sul suo sangue, “vero cibo” e “vera bevanda” dati per noi, non se ne erano andati come gli altri. Ricordiamo la conclusione del capitolo 6 di Giovanni: “Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio». Bellissimo. Ma non bisogna dimenticare la conclusione sorprendente di Gesù, che dice: «Non sono forse io che ho scelto voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!»” (Gv 6, 68-70)
Quell’ultima cena, di cui oggi celebriamo il memoriale, è unica, perché è la cena in cui quel duro discorso di Gesù si attua nell’istituzione dell’eucaristia, e perché è la cena dell’intimità e della festa tradita. Unica è anche la Messa in Coena Domini che viviamo quest’anno, perché in tutta la Chiesa si celebra senza popolo: festa e intimità sono tradite. Allegoricamente, potremmo accostare il Covid-19 al gesto traditore di Giuda. Da tempo, il mondo, similmente a Giuda che prendeva quello che c’era nella cassa e non gli interessavano i poveri, ci porta via quello che abbiamo in deposito: le radici ebraico-cristiane della nostra storia, i nostri valori, i nostri migliori talenti culturali, manifatturieri, scientifici.
Ad un certo punto, il mercato globale ci ha svenduti tutti in base alla logica del profitto e del rapporto costi-benefici, una logica che non guarda in faccia alle relazioni – familiari, amicali, professionali o istituzionali che siano – e non si cura dei deboli o tanto meno dell’ambiente; e ultimamente è uscito di mezzo a noi un virus maligno che, a tradimento, ci ha colpito per consegnarci alla morte. Anche noi, con il profeta Geremia, potremmo ripetere: “I miei occhi grondano lacrime notte e giorno, senza cessare, perché da grande calamità è stata colpita la vergine, figlia del mio popolo, da una ferita mortale.” (Ger 14, 17).
Siamo qui riuniti per celebrare l’eucaristia come famiglia dei figli di Dio e siamo visibilmente e fisicamente decurtati. La celebrazione senza popolo, ferisce l’unità della Chiesa. Collegarsi e vedere le celebrazioni eucaristiche e i momenti di preghiera è un aiuto per vivere in questa situazione la comunione che nessuna limitazione potrà mai sospendere, ma è anche vero che non c’è la partecipazione reale all’assemblea liturgica. Quanto ci mancano alla mensa eucaristica i nostri fratelli e le nostre sorelle, discepoli come noi dell’unico Maestro e Signore! Ne sentiamo la mancanza come si sente la mancanza di una figlia tenuta prigioniera o di un figlio al fronte. Ci mancate! Però, questa ferita mortale è inferta soprattutto a quei fragili costrutti ecclesiali senza un pensiero, senza sentimento e senza profumo, senza il profumo delle pecore.
Forse, siamo tentati di guardarci indietro, per riprendere il filo da dove lo avevamo lasciato 30 o 60 anni fa, quando l’aria era più pulita, la vita più semplice, meno vorace e dispersiva, maggiormente strutturata intorno ai rapporti interpersonali, ecc.; e vorremmo eliminare Covid-19 dalla nostra esistenza,… come i discepoli probabilmente avrebbero voluto riavvolgere il nastro degli avvenimenti e mettere fuori dalla porta Giuda, prima che si consumasse il dramma.
Ma il Signore della storia ci addita un’altra via, la sua. Gesù mangia e beve anche con Giuda; gli lava i piedi. Una realtà senza sconti. Un amore estremo. E a noi chiede di fare lo stesso: Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi. È il momento, per la Chiesa e per il mondo, di aprirsi ad un tempo nuovo. E la novità passa da questa sofferta Pasqua, dal divenire noi stessi eucaristia!
Anche noi siamo chiamati a far entrare l’amore di Dio nelle piaghe della storia, partecipando al bene assoluto dell’offerta di Gesù. In questo consiste il sacerdozio ricevuto nel battesimo: essere disposti a morire per servire coloro che amiamo, tutti i fratelli e le sorelle che incontriamo sul cammino. Mi vengono in mente le innumerevoli luminose storie di questi giorni: medici, infermieri, assistenti, volontari, uomini delle istituzioni, farmacisti, commessi nei supermercati, autisti, sacerdoti, consacrati… tanti si sacrificano per servire gli altri, perché altri vivano, anche a prezzo della propria vita. Questo ci è chiesto di fare.
Tra noi, alcuni sono chiamati al ministero presbiterale, cioè a svolgere le funzioni di servo, pastore, maestro, sacerdote, che hanno senso solo se sono pervasi da una sola dimensione martiriale, di offerta. Come presbiteri siamo chiamati a vivere in ogni atto ministeriale la nostra partecipazione all’offerta di Gesù, come abbiamo solennemente dichiarato prima di essere ordinati: con l’aiuto di Dio vogliamo essere sempre più strettamente uniti a Cristo sommo sacerdote, che come vittima pura si è offerto al Padre per noi, consacrando noi stessi a Dio insieme con Lui per la salvezza di tutti gli uomini. Perciò, quando pronunciamo sul pane le parole: Prendete e mangiate questo è il mio corpo – e similmente sul vino –, stiamo dicendo che noi partecipiamo, pur nella nostra debolezza, alla misura estrema d’amore che il Signore ci ha mostrato, cioè ci facciamo carico delle sofferenze dei fratelli e delle sorelle, consegnando tutto di noi – spirito, anima e corpo – nell’unione sponsale con Lui.
Esemplare la testimonianza di don Giuseppe Berardelli, un anziano sacerdote di Bergamo, deceduto dopo aver rinunciato al respiratore perché fosse reso disponibile per qualcun altro: il dono di sé per far vivere il popolo. Questo, per quanto posso capire è il senso del sacrificio eucaristico. Celebriamolo con fede e con amore, come ha fatto san Francesco nella sua vita tutta “eucaristica”.
Con lui, preghiamo:
Signore Gesù, ogni giorno tu discendi dal seno del Padre nelle mani del sacerdote; così, nel pane e nel vino consacrati, in apparenza umile tu mostri a noi il tuo santissimo corpo e sangue, vivo e vero, dato per la salvezza di tutti. Grazie, perché così sei con noi, come quando, umiliando te stesso, dalla sede regale discendesti nel grembo di una Vergine, Maria; e come quando mangiasti la Pasqua con i Dodici, e ti consegnasti sull’altare della croce per essere crocifisso, rivelando così l’amore del Padre per tutti. E in tal modo sei sempre con i tuoi fedeli, sino alla fine del mondo. Grazie Gesù per il dono dell’eucaristia!
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