Le visite dei pontefici
Proponiamo in ateprima il discorso di Mons. Bruno Forte che terrà quest'oggi all'inaugurazione del nuovo centro studi sulle radici culturali ebraico-cristiane della civiltà europea
Le radici ebraico-cristiane dell'Europa
Il futuro dalla memoria
(Assisi, 22 Febbraio 2010)
Di
Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto
Cristianità e Europa: la domanda - 1. Il profetismo biblico e l'”invenzione” della storia - 2. L'“invenzione”greca della politica e quella cristiana della persona - 3. L'apporto del personalismo d'ispirazione biblica alla democrazia europea
Cristianità e Europa: la domanda
Die Christenheit oder Europa – La cristianità ovvero l'Europa: così s'intitolava il saggio, scritto nell'autunno del 1799, da Georg Friedrich von Hardenberg, meglio noto con lo pseudonimo di Novalis. Muovendo dalla crisi prodotta dalla rivoluzione francese, il Pensatore poeta delineava una prospettiva messianico-spiritualista, che aiutasse a superarne i drammatici effetti. L'idea chiave era quella del primato della religione: soltanto l'ordine della cristianità, modellato su quello medioevale, avrebbe potuto salvare l'Europa. Per Novalis non si trattava di un semplice ritorno all'antico, ma di un ribaltamento utopico, orientato alla creazione di una “nuova cristianità”, che avrebbe dovuto “ricostruire una Chiesa visibile senza riguardo a frontiere politiche, capace di accogliere nel suo grembo tutte le anime assetate dell'ultraterreno e di fare da mediatrice fra il mondo antico e il nuovo”. Il saggio fu rifiutato dalla rivista “Athenaeum”, espressione di una parte significativa dell'“intellighentsia” tedesca, ed apparve integralmente soltanto nel 1826. In realtà, l'alternativa proposta alla crisi consisteva in un sistema non meno ideologico di quello che intendeva rifiutare, il moderno, illuministico “ordre de la raison”. L'utopica ripresa di un ideale, in realtà mai esistito, non esercitò più che il fascino della suggestione, prestandosi piuttosto a strumentalizzazioni nostalgiche e reazionarie.
Il “caso” rappresentato da Christenheit oder Europa risulta emblematico in un tempo come il nostro, caratterizzato da una crisi di proporzioni non dissimili da quella seguita alla rivoluzione francese: il crollo del muro di Berlino - avvenuto a due secoli esatti dal fatidico 1789 - ha segnato clamorosamente la fine delle ideologie che avevano dominato il sistema dei due blocchi contrapposti. La disgregazione che ne è seguita - sorprendente rispetto ad ogni possibile aspettativa - dimostra come la vera identificazione compiutasi nel tempo della modernità sia stata quella fra l'Europa e il modello ideologico, frutto della ragione adulta dell'Illuminismo. Di fatto, l'antica “casa europea” è stata la fucina di tutte le aspirazioni emancipatorie dell'età moderna, come anche dei i totalitarismi ispirati ad Est come ad Ovest dalla pretesa delle ideologie di imporre al reale un ordine razionale, traducendo questa “volontà di potenza” (Friedrich Nietzsche) anche nell'esercizio sistematico della violenza.
Si comprende, allora, quale rischio comporterebbe il proporre per il futuro dell'Europa nuovi modelli ideologici, compreso quello di eventuali radici da ritrovare: l'eredità ebraico-cristiana, se vorrà servire al superamento delle difficoltà attuali della coscienza europea, non potrà essere pensata in termini di ideologia rassicurante, di ritorno al passato. La vera posta in gioco è capire se e in che misura il “Grande Codice” che è la Bibbia (Frye Northrop) possa ispirare oggi una prassi sociale e politica, che soddisfi il bisogno diffuso di nuovo consenso etico. Le radici ebraico-cristiane dell'Europa non vanno cercate insomma nella riproposizione di assetti ormai superati, ma nella visione biblica del Dio personale, della storia orientata al compimento della Sua promessa e del protagonismo decisivo della persona, rivelato nelle sue potenzialità e nel suo destino dalla vicenda del Figlio eterno fatto uomo per noi. Più che stare alle nostre spalle, il potenziale delle radici ebraico-cristiane dell'Europa ci provoca come qualcosa che sta davanti a noi e che ci chiede passi di libertà audace e scelte di intelligenza creativa.
1. Il profetismo biblico e l'“invenzione” della storia
I profeti dell'antico Israele sono i testimoni di una concezione del tempo che procede a senso unico verso il futuro della promessa di Dio: se per le religioni arcaiche gli interventi divini erano avvenuti nel tempo mitico, “nell'istante extra temporale dell'inizio” e andavano attualizzandosi nell'eterno ritorno dell'identico[1], per la fede d'Israele la rivelazione avviene nella storia e storiche sono le forme dell'auto-comunicazione divina: in particolare è storia la parola in cui il Dio dell'alleanza si dice, pur senza in essa esaurirsi, ed è storia l'insieme dei gesti di salvezza che compie. Le meraviglie dell'Eterno vengono compiute con eventi e parole intimamente connessi e la Sua promessa schiude nuovo futuro, del tutto indeducibile ed impensabile a partire dal ricordo o dalle deduzioni dell'uomo. Il tempo storico acquista nuova dignità: la rivelazione come storia, la storia come epifania ed insieme nascondimento della gloria, hanno come duplice conseguenza la valorizzazione del tempo storico e la sua permanente apertura ad un avvenire non ricavabile da alcuna premessa.
L'atto in cui si esprime nella forma più alta la dignità del vissuto umano illuminato dalla rivelazione del Dio personale è la fede: Abramo è il padre di un nuovo popolo, che non è più l'umanità arcaica legata all'eterno ripetersi del ciclo, ma il popolo di Dio, affidato alle Sue promesse, aperto all'indeducibile novità del compimento. Se il sacrificio del primogenito era per il mondo paleo semitico un'usanza dal significato pienamente intelligibile, ripetitivo della cosmogonia e perciò capace di redimere il tempo riproponendone l'inizio, in Abramo esso diviene un atto di fede: “Con questo atto, in apparenza assurdo, Abramo fonda una nuova esperienza religiosa: la fede”[2]. Grazie alla fede nel Dio che sembra negare le sue promesse (“Deus contra Deum”!), il tempo viene aperto all'impossibile possibilità divina, e la decisione umana di fidarsi dell'Eterno, anche quando sembra restare silenzioso e nascosto, acquista il sapore di una infinita dignità, tale da dare valore all'intero tempo storico.
Questa percezione della storia come luogo dell'apocalisse, in cui si rivela e si nasconde la gloria del Dio vivente, tocca il suo vertice nella rivelazione cristiana: con l'incarnazione il Figlio eterno si fa soggetto di una vicenda pienamente umana, pur restando sul piano dell'essere di Dio; con la passione e la morte Egli fa suo l'infinito dolore del negativo, la “croce della storia”, fino al supremo abbandono, in cui il “Deus contra Deum” si rivela nella forma più drammatica. Con la resurrezione Egli immette nel tempo l'inaudita novità della vittoria di Dio, che vince la morte e promette la vita in pienezza. La sequela di Gesù, Signore e Cristo, è fede che apre al futuro di Dio e al presente degli uomini, in cui Egli è venuto ad abitare col Suo indeducibile avvento. La speranza della risurrezione prende il posto della nostalgia; il valore dell'atto, la dignità della decisione attiva e responsabile, cancellano il primato della ripetizione; la rigenerazione del tempo storico non avviene a prezzo del suo svuotamento, ma grazie all'irruzione del nuovo di Dio, rifiutato o accolto dalla libertà degli uomini.
Al tempo meramente quantificato nel succedersi degli istanti ripetitivi dell'eterno o anche in un susseguirsi infinito di cadute verso il nulla - il “chrónos” -, la fede neotestamentaria sostituisce l'idea del tempo qualificato - il “kairós” -, reso tale dalla decisione di fede di fronte all'annuncio ed all'offerta della grazia. La buona novella del cristianesimo è la salvezza della storia, non la salvezza dalla storia: l' oggi” dell'uomo è assunto e redento dall'“oggi” del Figlio dell'uomo e può divenire, nell'accoglienza di Lui, l'“oggi” di Dio. Non si tratta, dunque, semplicemente di una salvezza nella storia, per la quale cioè il tempo resti soltanto lo “scenario”, il “theatrum gloriae Dei”. Molto più, si tratta di una redenzione del tempo storico operata dalla grazia del Dio vivente entrato in esso e dalla libera accoglienza dell'uomo, soggetto e protagonista della storia. La “storia della salvezza” si costruisce sulla possibilità di una “salvezza della storia”, fondata nel mistero dell'avvento col quale il Dio vivente ha fatto sua la storia degli uomini perché questi divengano partecipi della Sua gloria, nel tempo e per l'eternità.
Sotto l'influenza di questa visione biblica, la coscienza europea ha maturato le grandi proposte di filosofia della storia, che si sono espresse in particolare nelle moderne concezioni del progresso. Prodotto della ragione emancipata, la filosofia della storia si è rivelata spesso come un pensiero dalle pretese totalizzanti, chiuso alla novità del futuro, perché incapace non solo di dar ragione dell'interruzione e della morte, ma anche di aprirsi alle sorprese prodotte dall'eccedenza della realtà rispetto al pensiero. La crisi delle ideologie del progresso è crisi di una totalità chiusa, rottura di un orizzonte che ha voluto imporsi come ultimo, e che, nella fragilità e nelle incompiutezze di ciò che ha saputo produrre, si è manifestato palesemente “penultimo” e carico di violenza. È da questa parabola di ascesa e di declino delle letture totalizzanti del divenire storico, operate dalla modernità, che emerge una sfida alla tradizione ebraico-cristiana, radicata nella profezia biblica e nella rivelazione del Dio personale: a differenza della “filosofia della storia” essa propone una lettura del divenire storico costitutivamente “aperta” alla Trascendenza, costruita non a partire dall'uomo e dalla sua ragione più o meno presuntuosa e totale, ma muovendo dall'Altro, assoluto e trascendente, che ha visitato la storia e col Suo avvento ne ha mostrato al tempo stesso la finitezza, il destino ultimo e l'infinita dignità. Il fondamento irrinunciabile di ogni teologia della storia è la rivelazione: è grazie ad essa che la lettura di fede non si converte in ideologia, ma resta pensiero aperto, pervaso dallo stupore e dall'adorazione di fronte al nuovo ed all'incatturabile del Dio venuto nel tempo.
Non è dunque il semplice progresso lineare verso il futuro ciò che caratterizza la teologia ebraico-cristiana della storia: esso potrebbe restare unicamente quantitativo e cadere nelle chiusure delle ideologie mondane. È la sorpresa del “Deus adveniens” quella che offre alle visioni totalizzanti della storia un possibile sbocco redentivo: al senso che l'uomo si dà con la sua progettualità, essa sostituisce il senso che Dio dà alla storia col Suo disegno e i Suoi interventi salvifici. La caduta delle presunzioni ideologiche è riscattata dalla speranza fondata nella fede: la presa d'atto del proprio limite diviene per la creatura lo spazio aperto per il riconoscimento della Trascendenza, che sostiene e regge la storia, e, entrando in essa con l'evento di rivelazione, ne rende possibile una qualificazione salvifica mediante la decisione di fede. Non è insomma la radice teologica dei concetti di storia e di progresso quella che ne costituisce il potenziale pericoloso e violento, ma esattamente la sua perdita[3]: ritrovare queste radici è anzi per la coscienza del divenire storico esorcizzazione della violenza e disponibilità al veniente e al nuovo. Anche in questo senso, il riconoscimento delle radici ebraico-cristiane potrà aiutare la coscienza europea a liberarsi della prigionia delle visioni ideologiche per aprirsi a un nuovo futuro.
2. L'“invenzione”greca della politica e quella cristiana della persona
Nello scenario descritto, trova poco spazio l'agire politico, che pure tanta parte ha avuto ed ha nella storia europea: la mediazione - che di esso è l'anima - non sembra arte dei Profeti. Essi scelgono piuttosto la denuncia, la critica che scaturisce dalla “riserva escatologica” legata alla fede. L'“invenzione” della politica appartiene ad Atene, non a Gerusalemme! Se Carl Schmitt introdusse il concetto di una “teologia politica” nel dibattito teologico-filosofico del Novecento, lo fece per denunciare la corrispondenza strumentale fra il potere politico e le rappresentazioni teologiche nella storia, frutto a suo avviso dell'eredità ebraico-cristiana[4]. La fede dell'esodo e del Regno favorirebbe la gestione del potere mondano, perché proietterebbe in avanti, verso il futuro di Dio, la soddisfazione delle inevase esigenze di giustizia e di pace. Fede e potere si dividerebbero le sfide della storia: al potere l'esperienza, alla fede l'attesa. Contro le posizioni di Schmitt, Erik Peterson volle sostenere che ciò può essere vero del monoteismo, non della fede trinitaria[5]. Mentre il monotesimo sarebbe servito come legittimazione teologica dell'unità dell'impero, la dottrina ortodossa della Trinità avrebbe minacciato seriamente quest'ultima. È quanto avrebbe spinto gli imperatori dalla parte degli ariani, teologi della corte bizantina. Solo la fede trinitaria avrebbe garantito la libertà critica rispetto al potere politico, fondando quella capacità di “critica sociale”, che sarebbe il vero apporto del cristianesimo alla ricerca del bene comune.
Pur riconoscendo il valore che questa tesi aveva in relazione all'ora in cui fu espressa, dominata dalla barbarie totalitaria nazionalsocialista, è innegabile che le cose siano andate in maniera più complessa: non è certo la critica dirompente che manca al monoteismo dei profeti, quanto piuttosto la fatica della mediazione, il senso della politica! La semplice deduzione di un atteggiamento politico dal monoteismo o dalla fede trinitaria non regge. Quel che bisogna riconoscere è che la politica come mediazione fra diversi appetiti e possibilità in gioco non nasce a Gerusalemme, ma ad Atene: il termine stesso ci riporta alla Grecia classica, e precisamente a quella città unica dove, per la prima volta, apparve la “democrazia”, il governo popolare della “polis”. È Eschilo a registrare questa genesi nella forma della tragedia: “Il ‘nemico' è promosso nella scena tragica al rango di protagonista e finge di parlare greco, ma proclama valori opposti a quelli su cui la Grecia sta definendo, per differenza appunto, il proprio profilo politico e culturale. Il numero e l'oro contrapposti alla povertà di risorse riscattata dalla virtù individuale e dalla responsabilità collettiva; l'atteggiamento di subordinazione dei sudditi di fronte a un sovrano assoluto che non deve rispondere a nessuno contrapposto al valore individuale e corale di un popolo che tale si riconosce in quanto è un popolo libero, composto di soggetti tenuti tutti, fino ai più alti ruoli del potere, a dare conto delle proprie scelte, a risponderne alla città e, nel caso, a pagarne il prezzo”[6].
Sta qui la forza di Atene contro i Persiani: è la “pólis”, segnata dai due grandi slarghi dell'“agorá” e del “teatro”, quella che si contrappone al monolitico palazzo del potere persiano. L'“agorá” è il luogo dei dialoghi, dei commerci e delle manifestazioni della volontà popolare; il “teatro” è lo spazio dove si può dare voce al controcanto dell'anima, a tutto ciò che suona come coscienza critica della prassi politica e dell'esercizio del potere. La “pólis” nasce dalla combinazione feconda della pubblica piazza e del teatro, perché quest'ultimo “non risolve, ma contiene e rappresenta i conflitti e le contraddizioni della polis. Nella città il teatro è il luogo in cui viene proiettata l'alta sfida del gioco politico e la tenace professione di fede nella necessità della rappresentazione sulla quale si fonda la greca e occidentale, fin dalle origini secolarizzata, téchne politiké”[7]. Nasce così la “politica”: il suffisso “ikòs” aggiunto a “politéia” - “polítes”, alle figure, cioè, del “cittadino” e della “cittadinanza”, sta a dire che non si fa politica senza il riferimento alla “città” e all'interesse di quanti la costituiscono. Dalle necessità della “pólis” è generata e misurata la mediazione politica; al servizio di essa deve porsi in un continuo, dialettico interscambio con la ricerca del “bene comune”.
Tutto questo, però, non potrà realizzarsi se l'agire politico non saprà fare i conti con le altrui ragioni, e soprattutto con il riferimento al valore ultimo del bene comune e delle esigenze etiche che lo garantiscono. In democrazia la politica ha bisogno dell'etica, che ne misuri costantemente il potere umanizzante al servizio del bene di tutti e l'aiuti ad individuare le priorità e le vie giuste per realizzarle. È qui che la tradizione ebraico-cristiana si è inserita portando il suo contributo creativo alla politica: lo ha fatto elaborando il concetto di “persona”. Nata nell'ambito del dibattito cristologico e trinitario dei primi secoli, in particolare all'interno del cosiddetto “episodio dogmatico” che sta fra il Concilio di Nicea (325) e quello di Costantinopoli (381), per giungere a maturità col Concilio di Calcedonia (451)[8], l'idea di persona diventa la chiave di volta della concezione teologica della politica, perché assomma in sé due campi in tensione reciproca, quello della singolarità e quello della relazione. Nella dialettica fra l'uno e l'altro, la persona viene a situarsi come soggetto assolutamente unico (esse in se), che può liberamente destinarsi all'altro, stabilendo rapporti di reciprocità solidale (esse ad). È nell'unità di queste relazioni, nella loro reciproca interazione, che la persona si offre come il soggetto libero e consapevole della propria storia, posto sulla frontiera fra esistenza storica e valore morale, in grado di saldare i due campi in un'unità sempre ricca di tensione.
3. L'apporto del personalismo d'ispirazione biblica alla democrazia europea
Quanto l'“invenzione” cristiana della persona sia stata gravida di conseguenze per pensare e realizzare correttamente la mediazione politica, in particolare nel farsi dell'Europa moderna, vorrei mostrarlo riferendomi ad un caso esemplare: quello della Costituzione della Repubblica Italiana, elaborata sotto la decisiva influenza del pensiero personalista d'ispirazione cristiana, soprattutto a partire dal cosiddetto Codice di Camaldoli, messo a punto durante una settimana di studio tenutasi nel luglio 1943 nel monastero di Camaldoli, presso Arezzo, cui avevano partecipato una cinquantina di giovani dell'Azione Cattolica e della FUCI. Una rapida verifica dei principi personalistici fatti propri dal dettato costituzionale consentirà di percepire come, nell'orizzonte del rapporto fra Dio e la storia proposto dalla rivelazione biblica, il cristianesimo abbia saputo maturare un'idea della mediazione politica tutt'altro che astratta, capace di sviluppare e arricchire il guadagno offerto da Atene al mondo con l'idea di democrazia e di politica, assumendo al contempo l'orizzonte profetico - escatologico offerto da Gerusalemme. Un guadagno di cui l'Europa di oggi sembra avere come mai bisogno!
L'idea dell'essere in sé della persona (“esse in”) è alla base del principio della sua singolarità e della sua infinita dignità: “La persona non è un oggetto: essa anzi è proprio ciò che in ogni uomo non può essere trattato come un oggetto...” [9]. Il riconoscimento dell'assoluta originalità dell'essere personale è baluardo contro ogni possibile manipolazione degli esseri umani, garanzia del rispetto incondizionato dovuto a ciascuno. La Costituzione recepisce questo principio quando afferma che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo” (art. 2). L'uso del verbo “riconoscere” mostra come questi diritti siano considerati preesistenti rispetto alla loro configurazione giuridica, non creati dallo Stato, obbliganti anzi di fronte ad esso. Da una simile impostazione, frutto anche della reazione ai soprusi del totalitarismo, derivò l'esplicitazione del principio di uguaglianza, secondo cui tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni sociali e personali, sono uguali davanti alla legge (uguaglianza formale: art. 3, comma 1) e devono essere in grado di sviluppare pienamente la loro personalità sul piano economico, sociale e culturale (uguaglianza sostanziale: comma 2). L'importanza e l'attualità di queste conseguenze sono facilmente intuibili nel campo della tutela delle minoranze, dei lavoratori, delle donne, dei diversamente abili, ed oggi in modo speciale nel rispetto dovuto alla persona degli immigrati, quale che sia il loro stato giuridico. Riconoscere e tutelare la dignità di ogni essere personale è il primo impegno cui chiama la nostra Costituzione, in questo eco fedele dell'idea che il cristianesimo offre alla mediazione politica riguardo all'assolutezza, singolarità e pari dignità di ogni uomo o donna davanti a Dio e alla storia.
L'idea dell'essere per sé e per altri della persona (“esse ad”) esprime il movimento di auto-determinazione e di finalizzazione che la caratterizza, e perciò il ruolo determinante che hanno la consapevolezza e la libertà nei suoi atti. Nel conoscere e nel decidersi la persona è responsabile verso se stessa, come verso gli altri. Sta qui il fondamento del principio di responsabilità, formulato da Kant come imperativo pratico in questi termini: “Agisci in modo da trattare l'umanità, così nella tua come nella persona di ogni altro, sempre insieme come fine, mai semplicemente come mezzo”[10]. La Costituzione recepisce questo principio anzitutto affermando il valore del pluralismo: pur se la Repubblica è dichiarata una ed indivisibile, è riconosciuto e tutelato il pluralismo delle formazioni sociali (art. 2), degli enti politici territoriali (art. 5), delle minoranze linguistiche (art. 6), delle confessioni religiose (art. 8), delle idee (art. 21), ecc. Il concetto di responsabilità è parimenti alla base del cosiddetto principio di laicità e di tolleranza, in forza del quale lo Stato e le comunità religiose sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani (art. 7) e tutte le confessioni sono egualmente libere davanti alla legge (art. 8). Il sapersi responsabili verso se stessi e verso altri fonda insomma l'esigenza del rispetto del diverso e del farsi carico - se occorre - del suo bisogno e della tutela dei suoi diritti. Nessun uomo è un isola e a nessuno è lecito disinteressarsi del bene comune. Nella comunione solidale dell'essere personale ciascuno si scopre responsabile di tutti ed insieme si avverte sostenuto dalla corresponsabilità altrui. Questo costitutivo essere relazionale della persona si esprime nel principio di solidarietà, accolto chiaramente nel dettato costituzionale: “La Repubblica… richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2, comma 2). Il valore della solidarietà si estende dalle persone ai gruppi, in primo luogo alla famiglia, fino alla grande comunità dei popoli e alla mondialità. In questa linea il principio di solidarietà esige un impegno prioritario a favore della pace: come viene sancito all'art. 11, la Repubblica ripudia la guerra e promuove gli organismi internazionali atti ad assicurare il mantenimento della pace e della giustizia fra le Nazioni.
I dinamismi della persona e della comunità delle persone, richiamati nella espressione che ad essi ha dato la Costituzione Italiana, si intersecano continuamente fra loro. Nell'unità dell'azione personale il soggetto al tempo stesso modifica la realtà esteriore, si forma, si avvicina agli altri ed arricchisce il proprio universo di valori. Agendo così, la persona si manifesta come l'essere della trascendenza, interiorità continuamente sfidata ed arricchita dall'incontro con gli altri, responsabile verso di sé e verso l'infinita dignità altrui. Tenere insieme questi aspetti è l'esigente dinamismo e il difficile equilibrio, cui deve tendere l'esistenza personale nella visione personalista e al cui servizio deve porsi la mediazione politica. Riappropriarsi continuamente di questi principi, promuoverne la piena realizzazione, è una sfida e un compito, perfino una vocazione, cui dedicarsi con l'impegno di tutta la vita: “Nel raccogliersi per ritrovarsi, nel dispiegarsi per arricchirsi e ancora ritrovarsi, nel raccogliersi di nuovo attraverso la liberazione dal possesso, la vita della persona - sistole e diastole - è la ricerca fino alla morte di una unità presentita, agognata e che mai si realizza... È necessario scoprire in sé, fra il cumulo delle distrazioni, anche il desiderio di cercare quest'unità vivente; ascoltare a lungo le suggestioni ch'essa ci sussurra, avvertirla nella fatica e nell'oscurità senza mai essere certi di possederla. Tutto ciò assomiglia piuttosto a un richiamo silenzioso, in una lingua che richiederebbe tutta la nostra vita per essere tradotta: per questo il termine di vocazione gli conviene meglio di qualunque altro” [11]. Corrispondere a una tale vocazione rende la mediazione politica tanto esigente, quanto necessaria e preziosa: un compito verso cui tenersi sempre pronti, una forma di carità alta, in cui si prepara l'avvenire di tutti.
Sta qui la sfida costituita dall'accoglienza dell'apporto delle radici ebraico-cristiane alla convivenza civile dell'Europa, in forza del quale Dio, storia e politica non sono estranei l'uno all'altro, ma si relazionano nella costruzione di un'umanità vera, buona e felice per tutti. Un apporto che ha dato frutti straordinari nella costruzione post-bellica della comune casa europea e di cui mi sembra ci sia urgente bisogno anche di fronte alla crisi in atto. La storia e la politica nell'orizzonte dell'accoglienza del Dio biblico non sono meno, ma più umane, non meno, ma più giuste e realizzanti per tutti. Sta qui, dunque, la posta in gioco quando ci si confronta col “caso serio” del riconoscimento e della valorizzazione delle radici ebraico-cristiane dell'Europa. Non si tratta di una nostalgica archeologia culturale, quanto piuttosto di una consapevole e coraggiosa assunzione dello sguardo profetico di cui gli Europei hanno più che mai bisogno per vivere da cittadini liberi e capaci di nuovo futuro e per dare il loro apporto alla causa della giustizia e della pace nel villaggio globale. De re nostra agitur: con buona pace di chi sulle radici bibliche della casa europea ha discettato per esorcizzarle, siamo in gioco noi europei, tutti noi, credenti e non credenti, cercatori di Dio o indifferenti e agnostici, ed è in gioco il nostro compito per contribuire al presente e al futuro dell'Europa dei popoli e delle nazioni, come dell'intera famiglia umana.
Le autentiche “radici ebraico-cristiane” vanno insomma cercate in quella “riserva escatologica”, che ha suscitato innumerevoli e diversissime storie di fede e di generosità nei più svariati mondi culturali della terra europea - da San Benedetto da Norcia ai santi Cirillo e Metodio, da San Francesco d'Assisi ai “folli di Dio” della spiritualità russa - e che motiva oggi il rifiuto di ogni atteggiamento passivo e rinunciatario di fronte alla crisi in atto, e l'assunzione di responsabilità verso gli altri per costruire insieme la futura “casa comune europea”. Un simile ritorno al futuro della “religione della speranza” sarà il frutto di un'autentica riscoperta delle radici bibliche dell'Europa, che all'Est ha bisogno di non far andar perduta - con la crisi dell'ideologia - la carica utopica che la ispirava, ed a Ovest di dare un orizzonte di senso a un universo etico quanto mai frammentato. Le “radici ebraico-cristiane” dell'Europa sono un destino e una speranza, più che non un possesso e una certezza! Lungi dal tranquillizzare, esse sfidano tutti e ciascuno a uscire dal calcolo individualistico, per entrare nel respiro ampio della solidarietà fra singoli, i popoli e le nazioni, per aprirsi al solo orizzonte, che motivi l'impegno, senza rischio di tramontare: quello della speranza “ultima”, che dà vero senso e valore duraturo alle scelte complesse di tutto ciò che è “penultimo”.
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[1] M. Eliade, Il mito dell'eterno ritorno, Roma 1968, 137. Circa l'idea biblica di rivelazione e il suo rapporto con la concezione della storia cf. le tesi di W. Pannenberg, R. Rendtorff, T. Rendtorff, U. Wilckens, Rivelazione come storia, Bologna 1969.
[2] M. Eliade, Il mito dell'eterno ritorno, o.c., 143.
[3] K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Il Saggiatore, Milano 1998 (or. inglese 1949).
[4] Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972, 27-86 (la prima edizione tedesca è del 1922).
[5] Il monoteismo come problema politico, Queriniana, Brescia 1983 (la prima edizione tedesca è del 1935).
[6] M. Centanni, Introduzione all'edizione delle opere di Eschilo da lei curata per i Meridiani Mondatori, Milano 2003, XIII.
[7] Ib., XXX.
[8] Sulla storia del concetto di persona cf. A. Milano, Persona in teologia. Alle origini del significato di persona nel cristianesimo antico, Dehoniane, Napoli 1984.
[9] E. Mounier, Il personalismo, AVE, Roma 1964,11s (l'originale francese è del 1949).
[10] E. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Laterza, Roma-Bari 2002, 91.
[11] E. Mounier, Il personalismo, o.c., 68.
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