Le visite dei pontefici
Arte, creazione, libertà, energia viva… questi i termini usati da Pavel Florenskij per definire la lezione nel suo testo Lezione e lectio (1917). Un docente non può non sentire un brivido lungo la schiena all'udire così definita quella che dovrebbe essere la quotidianità del suo lavoro.
Cosa c'è dunque in ballo in un'aula scolastica, in un'ora di lezione? La lezione “non deve insegnare questo o quel genere di fatti, generalizzazioni o teorie, ma addestrare al lavoro, creare il gusto della scientificità, dare l'«innesco», il lievito all'attività intellettuale. Non è tanto un principio nutritivo quanto essenzialmente fermentativo, cioè tale da portare la psiche dell'ascoltatore a uno stato di fermento”. Scopo della lezione è molto di più dunque che trasmettere nozioni o addestrare abilità, molto più che sfidare lo studente a risolvere problemi creati ad hoc per esercitare le competenze.
La lezione come concepita da Florenskij, non “tragitto su un tram” dal percorso inesorabile, bensì “passeggiata a piedi” - nella quale la tensione alla meta non deprime ma esalta il gusto dell'osservare, del soffermarsi, del divagare - implica una concezione di scuola, e dunque di rapporto educativo, ben diversa da quella diffusa dai mass media, che tende a porre come nodi cruciali quelli che sono aspetti secondari dell'educazione e dell'istruzione (vedi ad esempio la valutazione e i voti, il risultato dell'apprendimento in termini di conoscenze o di competenze - inspiegabilmente contrapposti se non per ragioni che esulano da una seria riflessione sulla natura della conoscenza).
Florenskij ci suggerisce ben altro: una scuola è tale se nell'incontro tra l'adulto e il giovane, accomunati dalla stessa ricerca spirituale, avviene la messa in moto dell'io - intelligenza e affezione, ragione e libertà al contempo - di entrambi. Un ambito privilegiato dunque di incontro tra due generazioni, tra chi ha già compiuto una certa strada nell'avventura della conoscenza e chi vi deve essere introdotto, perché ne va della sua stessa vita, del senso del suo peregrinare.
Infatti se in un giovane non scatta il “gusto del concreto”, non ha senso pretendere il suo impegno: per quale motivo dovrebbe piegare la testa sulle “sudate carte” se il concreto non lo attirasse, se non fosse in grado di destare la sua tensione conoscitiva, se non offrisse strade per rispondere alla sua sete di significato, alle sue domande esistenziali, se non lo chiamasse a manipolarlo per dare forma al suo desiderio di creazione?
Ecco che il compito del docente si rivela altissimo: non colui che travasa contenuti in menti inerti e valuta i risultati dell'apprendimento, bensì colui che per primo desidera la verità e che condivide con i suoi allievi la fatica della ricerca e la gioia della scoperta, consegnando un metodo e testimoniando la possibilità di esiti positivi perché certo della meta già intravista all'orizzonte. E così l'attività intellettuale fermenta. Sia nei docenti che negli studenti.
Il “fermento”, non la sazietà, dunque come habitus ecome fine della scuola e dell'educazione. Solo giovani in fermento potranno affrontare le sfide del futuro, essere uomini amanti della scienza, della politica, dell'arte, del commercio… Avrà il desiderio di impegnarsi nella vita solo chi ha intravisto la positività dell'esistenza, ha esperito l'attrattiva del reale (fosse anche un particolare, un'inezia… come una poesia, una scultura, una legge fisica, un fatto storico… un contenuto qualsiasi di una qualsiasi lezione insomma), ha incontrato adulti certi della meta, umili nella ricerca, disposti al sacrificio, incuriositi e mossi dalle domande dei loro allievi (anche quando sembrano divagazioni).
La stessa stima per la ragione e la libertà propria ed altrui, unico possibile fondamento di una scuola che abbia senso di esistere, si legge tra le righe del testo di Eddo Rigotti, Conoscenza e significato, Mondadori 2009, trascrizione di quattro lezioni di un corso d'aggiornamento per docenti intorno ai punti nodali di una didattica responsabile proposto dalla Fondazione per la sussidiarietà in collaborazione con alcune associazioni del mondo della scuola.
Nell'ultimo capitolo in particolare è descritta e auspicata una modalità di lezione che richiama quella di Florenskij. Viene infatti proposto quale antidoto per l'atrofia del ragionamento la lezione caratterizzata dallo stile argomentativo: “Bisogna dare al ragazzo la dimensione dell'esistenza di un dibattito scientifico; non dobbiamo permettere che si riceva tutto come verità indiscutibile” (p. 124).
Non diversamente Florenskij afferma: “L'essenza della lezione è la vita scientifica in senso proprio, è riflettere insieme agli uditori sugli oggetti della scienza, e non consiste nel tirar fuori dai depositi di un'erudizione astratta delle conclusioni già pronte, in formule stereotipate”. Lo stile argomentativo dunque come il più valido in ordine al fermento dell'intelletto, in quanto l'argomentazione, applicando la ragione alla vita nella sua dimensione pragmatica, sollecitando la libera decisione del destinatario, presupponendo la razionalità ma promuovendo la ragionevolezza dell'azione, verificando nell'esperienza le conquiste del ragionamento, risulta lo strumento più adeguato per interpellare la ragione, rispettare e provocare la libertà, destare l'interesse per gli oggetti della scienza e il desiderio di avventurarsi sempre di più nella conoscenza.
Seguendo i suggerimenti di Florenskij e Rigotti, un efficace ripensamento della nostra scuola sofferente dovrebbe avere come criterio di valutazione per ogni suo aspetto (modalità di conduzione delle lezioni, arruolamento e formazione dei docenti, impianto delle discipline, strumenti didattici, scelta dei percorsi curriculari, valutazione degli studenti…) la fermentazione dell'attività intellettuale delle persone in essa coinvolte, docenti e studenti. Perché “l'educazione non può che essere argomentativa. Infatti senza argomentazione non c'è persuasione consapevole, critica, verificabile continuamente. Non c'è cultura”. (Rigotti, p. 154).
(ilSussidiario)
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