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Francescanesimo/Antonio, il fraticello con le ali di Francesco

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001



Francesco gli ha dato spirito e ali. E che spirito, e che ali. Ma, senza le radici che gli avrebbe poi dato Antonio, il francescanesimo non sarebbe forse andato tanto lontano. Questa affermazione, articolata e riproposta in innumerevoli modi diversi nel corso dei secoli, è probabilmente paradossale e, in qualche maniera, esagerata. Ma un fondo di verità c'è: perché se è fuori discussione che sia stato il travolgente fascino di Francesco d'Assisi a determinare il fulmineo successo dell'ordine da lui fondato e la sua irresistibile espansione, è altrettanto vero che, con ogni probabilità, senza Antonio di Padova la sua creatura non avrebbe resistito al contraccolpo delle lacerazioni interne, che la morte di Francesco portò con prepotenza a galla. Fernando Martim de Bulhões e Taveira Azevedo era uno delle migliaia di giovani folgorati dalla “novità” di San Francesco. Rampollo di un nobile famiglia di Lisbona, figlio di Maria Teresa Taveira e di Martino Alfonso de' Buglioni, entrato tra gli Agostiniani a 15 anni, dieci anni dopo, nel 1220, abbracciò il nuovo ordine impressionato dall'esempio di cinque francescani che, transitati dal Portogallo nel loro viaggio verso il Marocco, vi rientrarono cadaveri pochi mesi dopo, uccisi a poche settimane dall'inizio della loro missione. Cambiato il nome da Fernando in Antonio, iniziò così la sua nuova vita da francescano, anche se le cose non andarono esattamente come egli avrebbe voluto: la missione in Marocco “abortita” quasi subito per motivi di salute, l'imbarco per la Spagna, mai raggiunta per una tempesta che, invece, lo portò al largo di Messina. Lo salvarono alcuni pescatori, che lo consegnarono al locale convento francescano.
Non fosse stato per questa catena di eventi sfortunati, forse Antonio non sarebbe diventato Antonio di Padova. Ma, per il giovane portoghese la Provvidenza aveva disposto diversamente. E da Messina, raggiunti dalla notizia che per la Pentecoste dell'anno successivo Francesco aveva convocato un Capitolo Generale ad Assisi, Antonio e gli altri frati di Messina si misero in viaggio – a piedi – per la città umbra. Dove Antonio conobbe Francesco, e dove, a dispetto della sua umiltà che lo portava quasi a nascondersi tra i cinquemila frati che per quell'occasione si erano ritrovati attorno alla Porziuncola, fu notato per la sua sapienza e preparazione. Si può dire che fu proprio il Capitolo delle Stuoie del 1221 – così detto perché, mancando i posti letto, i frati dovettero dormire su stuoie stese a terra – a segnare l'inizio della fama di Antonio: predicatore instancabile in Italia e Francia, capace di affascinare nobili e piccoli con il suo parlare semplice ma colto e profondo al tempo stesso, denso di una teologia e di una forza dottrinale all'epoca ancora rare, o acerbe, nel giovane ordine francescano. Predicando la pace e la mitezza, contrastando le eresie dell'epoca con un vigore e un rigore straordinari, acquistando fama presso re e papi (Gregorio IX lo avrebbe definito «arca del Testamento», «peritissimo esegeta», «esimio teologo »). E, in questo tempo, contribuendo in modo assolutamente decisivo a ricomporre lo scontro tra Lassisti e Spiritualisti che, già emerso all'interno dell'Ordine con Francesco d'Assisi ancora in vita, alla morte del Poverello rischiava di far deflagrare.
A Padova, Antonio sarebbe arrivato solamente nel 1227, a 32 anni, quattro anni prima della morte. Scelse il convento della città veneta come sua residenza fissa quando fra' Giovanni Parenti, eletto ministro generale dell'Ordine alla morte di Francesco, lo designò Provinciale per l'Italia settentrionale. Un legame, quello con Padova, cresciuto d'intensità quasi di pari passo con la fama del frate che, già immensa, in quei quattro anni si accrebbe ulteriormente. Sentendosi prossimo a morire, di ritorno da un predicazione chiese di poter tornare a quella che era diventata la sua città, per spirare lì. Non ci arrivò quel giorno, e chiuse gli occhi all'Arcella, in vista delle mura. Quel che successe dopo, nel cuore del popolo che lo amava all'infinito, è quel che ancora oggi ogni anno muove milioni di pellegrini da tutto il mondo verso la sua tomba.(La Nazione)

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