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La missione in ospedale: da tecnico a cappellano

Redazione
Pubblicato il 30-11--0001

Forse non è molto francescano sostenere che la vita è una ruota che gira e prima o poi ci si rincontra, né tantomeno citare Forrest Gump (“la vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita”), ma è certo che a Padre Bruno Ottavi, quarantesimo cappellano in ordine di tempo dell’ospedale Santa Maria della Misericordia dai primi del’900 ad oggi, un qualche pensiero simile deve essere balenato in testa.
Lui, che prima di prendere i voti è stato tecnico di laboratorio nel reparto di Clinica Medica del vecchio nosocomio di Monteluce, si ritrova a frequentare gli stessi ambienti, senza camice ma col saio; lui che è stato un adolescente cristianamente motivato, allievo di Don Nello Palloni, negli anni ’70 suo parroco in via Cortonese, si ritrova a gestire la splendida chiesina dell’ospedale, affrescata proprio dal prete-pittore.
Padre Bruno, con gli altri due francescani Padre Domenico Campana e Padre Andrea Natale si è insediato dalla fine di agosto all’ottavo piano dell’ex Silvestrini, nel posto occupato per la prima volta agli inizi del 1900 da Padre Pellegrino Bargiacchi, quando l’ospedale era ancora in via Oberdan.

Ma Padre Bruno non è un frate qualsiasi, perché negli ultimi sei anni è stato Ministro Provinciale frati Minori in Umbria. Un capo, nonostante con “perfetta letizia” provi a spiegare che non è così: “guardi che ‘minister’ significa servo. Sono stato al servizio degli altri. Come ora, dove tutti i giorni, a tutte le ore ci confrontiamo con la morte e col dolore, come nei 15 anni da missionario in Congo Brazzaville”.

La piccola stanzetta dove parliamo sembra una “celletta” del Terzo Millennio con le pareti bianche, un messale aperto sul Vangelo del giorno, la stola viola, una immagine di Papa Woityla.
«Ho lasciato l’ospedale nel 1983, a 29 anni, per seguire la vocazione. Certo non pensavo mai che mi sarei ritrovato qui dopo tanto tempo. Alcuni dei miei ex colleghi purtroppo non ci sono più, altri che erano infermieri sono diventati Caposala… in pochi giorni ho rivisto tanta gente, anche incroci volanti in corridoio, qualcuno un po’ sorpreso, altri già sapevano».


Padre Bruno come si arriva a prendere una decisione così importante e dirompente?
«Sono cose che crescono dentro, sentimenti e pensieri che uno ha ma che probabilmente non riesce a tirare fuori completamente. Vede, non ero un giovane con molte ambizioni se non quella di aiutare il prossimo. Papà aveva un negozio di frutta e verdura all’inizio di via Cortonese, per tutti era Peppe. Lui e mamma Erminia erano sempre lì a sgobbare, io ho preso il diploma all’Itis di Piscille, chimica industriale, ho fatto i consueti lavoretti “porta a porta” vendendo enciclopedie e polizze di assicurazione, poi nel ’77 sono entrato come tecnico di laboratorio in Clinica Medica, chiamato dal professor Larizza. Incarico di sei mesi per cominciare. Prima ho imparato a fare prelievi, a trattare il sangue (centrifugazione, congelamento…), cercando di apprendere il più possibile da chi c’era allora: Paolo Boldrini, Massimo Zuccaccia, Franco Paffarini, Gilberto Loreti, la signora Mary, così la chiamavano tutti, già un po’avanti con l’età ma bravissima a svolgere le mansioni del laboratorio. Pian piano sono stato assegnato al dottor Morelli, al quale era stato chiesto di creare un laboratorio di gastroscopia, prima pulendo gli strumenti e assistendo i pazienti, poi specializzandomi nelle tecniche di ricerca del malassorbimento, nell’istologia epatica. Il dottor Morelli mi riportava sempre nuove informazioni dai congressi ai quali partecipava, mi stimolava a creare nuove colorazioni dei tessuti bioptici. Mi ero veramente appassionato e cercavo di portare ad un maggior numero di colorazione i reperti che poi lui avrebbe valutato al microscopio. Era un ambiente molto familiare, molto umano, un bel gruppo di amici più che di colleghi».


Fu difficile andarsene?
«Come le dicevo, io ero già molto impegnato, sia in parrocchia con Don Nello sia nella Caritas. Come volontario sono stato ad aiutare i terremotati del Friuli, della Valnerina e dell’Irpinia. Ma non mi bastava. Sentivo che mi mancava qualcosa dentro. Avevo conosciuto anche il dottor Vittorio Trancanelli, che mi operò di ernia inguinale. Una persona pacifica e pacificante, uno che donava e si donava agli altri sempre col sorriso. Un grande esempio. Per me la svolta decisiva ci fu nel 1982, quando lessi gli scritti di San Francesco e la Leggenda Maggiore di San Bonaventura. Mi si aprì un mondo, rimasi affascinato, decisi che avrei provato a diventare francescano e nel 1983, verso maggio, lo comunicai al dottor Grignani ed al dottor Morelli, dando regolarmente i tre mesi di preavviso…».


Dare il preavviso per seguire la vocazione è veramente una bella cosa, ma inconsueta, no?
«Questione di correttezza, non volevo mettere in difficoltà le persone che avevano lavorato con me per tanti anni, che mi avevano insegnato un mestiere e concesso la loro amicizia. Successero però due cose sorprendenti. Grignani, che aveva sostituto Larizza e Morelli mostrarono un po’ di stupore ma soprattutto grande affetto e profondo rispetto per la mia scelta. Confesso che mi sarei aspettato al massimo indifferenza o una scrollata di spalle. Addirittura, in quei tre mesi, alcuni miei colleghi cominciarono a parlare di più con me, ad aprirsi, a sfogarsi. Come se all’improvviso fossi già diventato altro rispetto ad un tecnico di laboratorio».


Il percorso per diventare frate, attraversando postulato, noviziato, gli studi di filosofia e teologia è durato 8 anni. Nel 1991 viene ordinato sacerdote e parte come missionario. Una scelta decisa?
«Era esattamente quello che volevo fare. Nel 1989 ero già stato in Ruanda per alcuni mesi e quando i nostri superiori decisero che i francescani sarebbero andati ad evangelizzare anche in Congo Brazzaville partimmo in sette. Laggiù ho avuto tra le altre cose l’incarico di formare i giovani che volevano farsi frati e preti. In 15 anni sono stati 35 quelli che ci sono riusciti, che ora evangelizzano a loro volta. Per quei ragazzi si è trattato di un percorso molto impegnativo, perché a chi aveva vissuto fino a quel momento in situazione di oggettiva povertà noi spiegavamo che se volevano diventare frati francescani dovevano pensare alla minorità, a fare lavori manuali, a mettersi al servizio dei poveri. E chi ha passato queste prove è decisamente entrato con convinzione nel nostro mondo. Per comunicare con loro, oltre ad un po’ di francese, ho anche imparato lingua “lingala” parlata nel centro Africa. Mi è servita per l’apostolato nei villaggi e nelle parrocchie, per confessare, per creare catechisti. Allora la nostra jeep sobbalzava tra le buche, le strade erano tutte bianche. Ci sono tornato da poco e lì sono arrivati i cinesi, che hanno asfaltato, costruito edifici. Ora comandano loro».


Nostalgia della vita da missionario ?
«No, perché stare qui all’Ospedale è a sua volta una forma di missione, di servizio 24 ore al giorno, dei 7-800 malati ma anche dei 3mila dipendenti ai quali proponiamo incontri, momenti per la confessione e ovviamente disponibilità massima. Mi sono chiesto: sarò in grado di fare tutto questo? Stanotte è suonato il telefono alle 2, ho dovuto benedire la salma di un ragazzo di 44 anni che era appena spirato».


E quale è stata la risposta alla sua domanda interiore?
«Appoggiarsi sempre alla fede. Ai genitori del ragazzo ho detto che eravamo proprio in prossimità della morte di San Francesco, del suo “transito”, anche lui aveva 44 anni. Ma è stato relativamente facile, parlavo con dei credenti. Se trovo persone che non hanno fede mi metto lì vicino in silenzio e prego. Così come ho imparato a leggere attentamente il librone che sta in fondo alla nostra chiesa, dove i malati, i loro parenti o semplici visitatori riportano i pensieri, le preghiere, le suppliche, i gridi disperati. Anche questo è un sistema per conoscere le situazioni e cercare di capirle. Per essere in grado di fare il cappellano dell’ospedale».

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