francescanesimo

L'omelia dell'Arcivescovo Betori: fare dei poveri la misura dell'umano

Redazione osservatorelibero.it
Pubblicato il 03-10-2019

Rinnovare il desiderio e la volontà di ispirarsi alla testimonianza lasciata a tutti noi dal Poverello

Il testo dell'omelia del card. Betori, Arcivescovo Metropolita di Firenze, in occasione delle celebrazioni di San Francesco Patrono d'Italia del 4 ottobre 2019.

La Toscana, le sue Chiese e le sue città, a nome dell’Italia intera viene oggi da San Francesco, con il segno dell’offerta dell’olio che alimenterà la lampada che arde di fronte alla sua tomba. Un gesto con cui si intende «rinnovare il desiderio e la volontà di ispirarsi alla testimonianza lasciata a tutti noi dal Poverello» (Messaggio dei Vescovi della Toscana per Pellegrinaggio alla Tomba di San Francesco, 4 ottobre 2019).

Questa intenzione obbliga a chiederci quale sia la radice di così luminosa testimonianza di vita. Lo svela lo stesso Francesco, nelle parole che aprono il suo Testamento: «Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo. E in seguito, stetti un poco e uscii dal secolo» (Fonti Francescane, 110). È la prima svolta nella vita del giovane d’Assisi, che cambia per sempre nell’incontro con Cristo, che gli si propone nella carne martoriata del povero, del lebbroso, a cui Francesco si avvicina, si fa prossimo, con il sentimento stesso di Cristo, la misericordia. L’incontro con Cristo nel volto e nella carne dei poveri segna l’inizio di un cammino di conformazione a Cristo, fino ad avere riprodotte nel suo corpo le ferite stesse del Crocifisso. Sovviene qui la memoria delle parole che Papa Francesco rivolse alla Chiesa italiana quattro anni fa nella cattedrale fiorentina: «Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Cristo. […] Guardando il suo volto che cosa vediamo? Innanzitutto il volto di un Dio “svuotato”, di un Dio che ha assunto la condizione di servo, umiliato e obbediente fino alla morte (cfr Fil 2,7). Il volto di Gesù è simile a quello di tanti nostri fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati. Dio ha assunto il loro volto. E quel volto ci guarda» (Discorso al V Convegno nazionale della Chiesa italiana, Firenze 10 novembre 2015).

San Francesco scoprì il volto di Cristo nel volto dei lebbrosi e quello sguardo diede inizio al cammino della penitenza, che lo staccò dal peccato e gli pose nel cuore la dolcezza. Su questa capacità di incrociare lo sguardo dei poveri si gioca la credibilità della nostra Chiesa e l’efficacia del suo annuncio. È questa la sfida che ci attende, come Chiesa ma anche come Paese: fare dei poveri e della loro cura la misura dell’umano. E questo senza porre barriere, perché il problema non è chi sia il mio prossimo perché io possa o debba curarmi di lui, ma di come io debba farmi prossimo a tutti, fino al più lontano, al nemico. Ritornano di attualità, per la Chiesa e per l’Italia, le parole che i Vescovi italiani scrissero diciotto anni fa: «Bisogna decidere di ripartire dagli “ultimi”» (La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, 23 ottobre 1981, n. 4). La conversione comunitaria e il cambiamento sociale sono legati al riconoscimento concreto di questa priorità. Perché solo lo sguardo degli “ultimi”, in cui si rivela il volto di Cristo, può sanare il nostro sguardo e portarci dall’amarezza alla dolcezza, dall’aridità egoistica alla gioia della condivisione.

Il secondo cambiamento della sua vita Francesco lo sperimenta quando, accogliendo accanto a sé dei compagni nella sequela di Cristo, dà forma concreta alla fraternità evangelica. La dimensione comunitaria è parte integrante della definizione piena di una vita e della sua conformazione a Cristo.

Un messaggio, questo, di particolare attualità a fronte della frammentazione che caratterizza questo nostro tempo, dividendo popoli e gruppi sociali, famiglie e la stessa dimensione personale, in un’affannosa ricerca di ciò che ci distingue per oscurare ciò che ci unisce e di ciò che nell’altro ci appare minaccioso, al punto di non riconoscere che solo nel legame ci è dato di esistere. Non a caso nel documento dei Vescovi italiani già ricordato, troviamo questo invito: «Il Paese non crescerà, se non insieme. Ha bisogno di ritrovare il senso autentico dello Stato, della casa comune, del progetto per il futuro» (La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, n. 8).

Il legame comunitario necessita però che nessuno pretenda di asservire a sé il fratello, ma lo accolga con amore. Qui si innesta il richiamo alla minorità, al farsi piccolo, che Francesco ci insegna. Troviamo scritto nello Specchio di perfezione: «Diceva pertanto il beato Francesco che Dio volle e rivelò a lui che i frati si chiamassero “minori”, perché questo è il popolo povero e umile, che il Figlio chiese al Padre suo. È di questo popolo che il Figlio stesso di Dio dice nel Vangelo: “Non temete, o piccolo gregge, poiché piacque al Padre vostro dare a voi il regno”. E ancora “Quello che avrete fatto a uno dei miei fratelli minori, lo avete fatto a me”» (Fonti francescane, 1710).

Piccoli e minori, cioè tutto il contrario delle pretese dell’uomo d’oggi, che si vorrebbe adulto, autonomo, autosufficiente, uscito per l’appunto dalla minorità. Ma ben conosciamo come questa pretesa di autonomia, di svincolata libertà abbia condotto agli abissi della massificazione totalitaria e alle secche della frantumazione sociale, fino alle contraddizioni di uno sviluppo che si è tramutato in crisi economica, e allo spaesamento delle frustrazioni personali che sfociano nell’angoscia. Su questa strada si collocano ora le minacciose nubi generate, soprattutto ai confini della vita, da una pretesa di autodeterminazione senza riferimenti valoriali e senza legami sociali.

Ma se occorre farsi piccoli e minori è perché solo così si apre lo spazio per diventare destinatari del dono di Dio, della rivelazione della verità e della partecipazione alla sua misericordia. Occorre uno spazio di disponibilità, che solo il povero sa esprimere: chi tutto sa, chi tutto ha, chi tutto presume di essere o di potere, non può accettare il giogo dolce e leggero di una parola che salva. A fondamento della comunità, ecclesiale e civile, sta questa coscienza di minorità che esclude ogni sopraffazione e ogni sfruttamento dell’altro, ma si pone di fronte a lui con spirito di servizio. Consapevoli che ciò che ci fa piccoli e minori non è un nostro autonomo abbassamento, ma il dono della misericordia di Dio, il sentirsi ogni giorno peccatori perdonati, fragili ma salvati.

Ancor più: essere piccolo e minore assimila alla condizione di Gesù, il primo piccolo e minore, lui che si presenta come «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), come ci ha detto nel vangelo. Essere con Gesù e come Gesù – l’unico progetto compiuto di vita cristiana –, diventare “un altro Gesù”, porta a entrare nel mistero stesso di Dio, nel legame di conoscenza e di amore che unisce il Figlio e il Padre. Continua Gesù: «Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Mt 11,27).

L’incontro con il volto di Cristo e la condivisione del suo dono di misericordia nella fraternità diventa per Francesco un’esperienza da comunicare. Si colloca qui l’incontro di Francesco con il Sultano, di cui quest’anno ricorre l’ottavo centenario. La gioia del Vangelo è così prepotente in Francesco che vuole sia comunicata a tutti, che raggiunga anche i più lontani, come al tempo apparivano i saraceni. Di qui i ripetuti tentativi di raggiungerli, fin quando il suo desiderio si compie a Damietta nell’incontro con il Sultano al-Malik al-Kamil.

La testimonianza che Francesco offre è quella dell’offerta di sé, nella certezza che l’incontro con l’altro lo condurrà a una maggiore coscienza di sé, a una purificazione della sua stessa fede, che così potrà illuminare ancor più l’altro. Un atteggiamento che, contrariamente a quel che pretenderebbero molti oggi, non oppone dialogo e annuncio del Vangelo, ma li ricompone in unità nel linguaggio della testimonianza, cioè un’esistenza che si mostra nella verità perché dalla verità si è lasciata possedere.

Questa forma di essere di fronte al mondo e all’odierno contesto multireligioso e di pluralismo culturale deve oggi connotare il servizio dell’evangelizzazione. In questa prospettiva l’appello alla minorità non va confuso con un venir meno della presenza della Chiesa nella società, non significa un ritirarsi in un’ambigua interiorità narcisistica. Al contrario, esso è il presupposto di una presenza più efficace perché più impregnata dei principi evangelici. Lo ricorda la prima lettura di questa liturgia, l’esaltazione che il libro del Siracide fa del sommo sacerdote Simone e che la Chiesa, in questa solennità, prende a prestito per illuminare ciò che Francesco d’Assisi è stato per la Chiesa stessa e per il nostro Paese. Con la sua opera egli ha edificato e fortificato la Chiesa in tempi travagliati, ma l’opera sua e dei suoi frati è stata un seme che ha fortificato e rinnovato la stessa convivenza degli uomini, dando un’anima alla trasformazione sociale delle città nell’Italia del tempo, orientandola in senso più umano. La maggiore fedeltà a Cristo si traduce nella maggiore fedeltà alla forma evangelica della Chiesa e al volto umanistico della società. Ambedue questi traguardi dobbiamo ricercare anche oggi e la testimonianza di Francesco ci illumina e ci sprona.

La conformazione a Cristo per Francesco d’Assisi, infine, prese forma visibile nelle stimmate, e non possiamo non ricordarlo noi Toscani, custodi della Verna, il luogo dell’incontro del Santo con il Crocifisso. L’esperienza suprema della croce che segna gli ultimi anni di Francesco ci ricorda che nessuno, se vuole seguire Cristo, può fare a meno della condivisione della sofferenza e della croce. Non perché inseguiamo una visione dolorista della vita, ma perché sappiamo che il confronto con il male, e la sofferenza che ne consegue, fa parte del nostro stare nel mondo con responsabilità. Non si può seguire Cristo senza misurarsi con il mistero del male che attraversa la storia e senza prendere sulle nostre spalle la croce, quella nostra e quella dei tanti sofferenti del mondo. Con l’apostolo Paolo e con Francesco d’Assisi noi condividiamo la fede che per essere nuova creatura occorre essere crocifissi per il mondo (cfr. Gal 6,14), segnando una rottura senza compromessi con i miraggi del benessere, del potere, dell’avido possesso, della ricerca dei piaceri che avvelenano la mentalità corrente.

Questo non rende amara la nostra vita perché la priva di qualcosa, ma la purifica, orientandola verso ciò che davvero la edifica e la realizza. Qui viene di nuovo in soccorso la pagina del vangelo, che esprime in mirabile sintesi i caratteri del Francesco totalmente assimilato a Cristo, fatto piccolo, per raggiungere la misura di quel Dio che si è svuotato, annientato per farsi uomo, e in questa piccolezza trova la dolcezza e il ristoro che vengono dalla mitezza e dall’umiltà (cfr. Mt 11,28-30). Mitezza e quindi dolcezza chiediamo per ciascuno di noi e per tutti nel nostro Paese, invocando la protezione di San Francesco.

Giuseppe card. Betori
Arcivescovo Metropolita di Firenze
Presidente della Conferenza Episcopale Toscana 

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