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La lectio di Papa Francesco: Napoli sia avamposto del Mediterraneo e laboratorio di teologia

Redazione corriere.it
Pubblicato il 22-06-2019

Una «teologia dell’accoglienza» e del dialogo con le altre religioni e la cultura laica, una «teologia in rete» e , «nel contesto del Mediterraneo, in solidarietà con tutti i naufraghi della storia». Dal piazzale di fronte alla Facoltà teologica dell’Italia meridionale, l’ateneo dei gesuiti sulla collina di Posillipo, davanti a sé il golfo di Napoli, Francesco pronuncia una «lectio» destinata a segnare il suo pontificato. «Napoli è un avamposto del Mediterraneo, è culturalmente caratterizzata dal dialogo e da un dialogo che esprime l’accoglienza come risultato dell’inculturazione del Vangelo, il laboratorio ideale di una teologia che si rinnova», aveva premesso padre Pino Di Luccio, decano della facoltà. Nella Costituzione «Veritatis Gaudium», all’inizio dell’anno scorso, il Papa aveva chiesto una «rivoluzione culturale» alle università cattoliche, un «cambio di paradigma» verso una teologia in uscita come la Chiesa di Francesco. Il ritorno all’essenziale del Vangelo, al «kerygma» come primo annuncio del messaggio cristiano, viene sviluppato da Bergoglio come un «compito teologico» che richiama San Paolo e «il cammino del cristianesimo delle origini che collega oriente e occidente». Così il Papa, da queste rive «molto vicine a dove Paolo sbarcò», ricorda i viaggi e «il naufragio al centro del Mediterraneo» dell’Apostolo, che a differenza di Giona «non fugge» e anzi «può pensare che Roma sia la sua Ninive». Ecco: «Ora che il cristianesimo occidentale ha imparato da molti errori e criticità del passato, può ritornare alle sue fonti sperando di poter testimoniare la Buona Notizia ai popoli dell’oriente e dell’occidente, del nord e del sud. La teologia ― tenendo la mente e il cuore fissi sul “Dio misericordioso e pietoso”, può aiutare la Chiesa e la società civile a riprendere la strada in compagnia di tanti naufraghi, incoraggiando le popolazioni del Mediterraneo a rifiutare ogni tentazione di riconquista e di chiusura identitaria». È necessario che «i teologi siano uomini e donne di compassione, toccati dalla vita oppressa di molti, dalle schiavitù di oggi, dalle piaghe sociali, dalle violenze, dalle guerre e dalle enormi ingiustizie subite da tanti poveri che vivono sulle sponde di questo “mare comune”».

«Cambio di paradigma»


Il «cambio di paradigma» indicato da Francesco ai teologi richiede un rapporto diverso con la tradizione. Tempo fa aveva citato una frase di Gustav Mahler: «Tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri». Ora parla dell’ «impegno di rivisitare e reinterrogare continuamente la tradizione» e spiega: «L’ascolto come teologi cristiani non avviene a partire dal nulla, ma da un patrimonio teologico che ― proprio dentro lo spazio mediterraneo ― affonda le radici nelle comunità del Nuovo Testamento, nella ricca riflessione dei Padri e in molteplici generazioni di pensatori e testimoni. È quella tradizione vivente giunta fino a noi che può contribuire a illuminare e decifrare molte questioni contemporanee. A patto però che sia riletta con una sincera volontà di purificazione della memoria, ossia sapendo discernere quanto è stato veicolo dell’intenzione originaria di Dio, rivelata nello Spirito di Gesù Cristo, e quanto invece è stato infedele a tale intenzione misericordiosa e salvifica». Al convegno organizzato dalla facoltà teologica viene letto anche un messaggio del Patriarca ortodosso di Costantinopoli, Bartolomeo: «Il grande pericolo che oggi attraversa il concetto di accoglienza è di non essere più percepito dai popoli cristiani come dettame evangelico ad esempio della fratellanza umana, ma come una “invasione” di popoli su altri popoli. Questo sentimento deve essere fortemente evitato, oggi, anche dalle nostre Chiese, affinché non si realizzi il binomio accoglienza-invasione».


«Bacino del Mediterraneo una grande tenda di Pace»


Le parole di Francesco sono l’esatto opposto delle tentazioni identitarie che, in tempo di sovranismi, usano il cristianesimo come un sistema di valori che divide e alza muri. «Giorgio La Pira ci direbbe che si tratta, per la teologia, di contribuire a costruire su tutto il bacino mediterraneo una “grande tenda di pace”, dove possano convivere nel rispetto reciproco i diversi figli del comune padre Abramo». Nella sua riflessione ricorda il «Documento sulla Fratellanza umana» firmato il 4 febbraio negli Emirati Arabi con il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, e parte da una serie di domande: «Come custodirci a vicenda nell’unica famiglia umana? Come alimentare una convivenza tollerante e pacifica che si traduca in fraternità autentica? Come far prevalere nelle nostre comunità l’accoglienza dell’altro e di chi è diverso da noi perché appartiene a una tradizione religiosa e culturale diversa dalla nostra? Come le religioni possono essere vie di fratellanza anziché muri di separazione?». Il Mediterraneo «è proprio il mare del meticciato, un mare geograficamente chiuso rispetto agli oceani, ma culturalmente sempre aperto all’incontro, al dialogo e alla reciproca inculturazione», spiega. Tuttavia «vi è bisogno di narrazioni rinnovate e condivise che ― a partire dall’ascolto delle radici e del presente ― parlino al cuore delle persone, narrazioni in cui sia possibile riconoscersi in maniera costruttiva, pacifica e generatrice di speranza». Da parte dei cristiani, nel rileggere la propria storia e la tradizione, significa anche saper distinguere «quanto è stato veicolo dell’intenzione originaria di Dio, rivelata nello Spirito di Gesù Cristo, e quanto invece è stato infedele a tale intenzione misericordiosa e salvifica», e quindi purificare la memoria: «Mi riferisco in particolare a tutti gli atteggiamenti aggressivi e guerreschi che hanno segnato il modo di abitare lo spazio mediterraneo di popoli che si dicevano cristiani. Qui vanno annoverati sia gli atteggiamenti e le prassi coloniali che tanto hanno plasmato l’immaginario e le politiche di tali popoli, sia le giustificazioni di ogni genere di guerre, sia tutte le persecuzioni compiute in nome di una religione o di una pretesa purezza razziale o dottrinale». Occorre quella «docilità allo Spirito» che, secondo lo stile di San Francesco d’Assisi, «implica uno stile di vita e di annuncio senza spirito di conquista, senza volontà di proselitismo e senza un intento aggressivo di confutazione» e sa entrare in dialogo «dal di dentro» con «gli uomini, le loro culture, le loro storie, le loro differenti tradizioni religiose». Tutto questo, «coerentemente con il Vangelo», comprende anche «la testimonianza fino al sacrificio della vita», dice il Papa, citando tra gli altri i monaci di Tibhirine, il vescovo di Oran Pierre Claverie Don Peppino Diana, «il giovane parroco ucciso dalla camorra, che pure studiò qui».


«Dialogo con musulmani per convivenza pacifica»


Una teologia «in dialogo» significa uno studio che procede confrontandosi con «le altre forme di sapere» e le altre religioni, a cominciare da Ebraismo e Islam: « Con i musulmani siamo chiamati a dialogare per costruire il futuro delle nostre società e delle nostre città, a considerarli partner per costruire una convivenza pacifica, anche quando si verificano episodi sconvolgenti ad opera di gruppi fanatici nemici del dialogo, come la tragedia della scorsa Pasqua nello Sri Lanka. Formare gli studenti al dialogo con gli ebrei implica educarli alla conoscenza della loro cultura, del loro modo di pensare, della loro lingua, per comprendere e vivere meglio la nostra relazione sul piano religioso». Per questo «nelle facoltà teologiche e nelle università ecclesiastiche sono da incoraggiare i corsi di lingua e cultura araba ed ebraica, e la conoscenza reciproca tra studenti cristiani, ebrei e musulmani».


«Garantire libertà teologica»


Lo stesso Gesù, del resto, «ha annunciato il regno di Dio dialogando con ogni tipo e categoria di persone del Giudaismo del suo tempo: con gli scribi, i farisei, i dottori della legge, i pubblicani, i dotti, i semplici; a una donna samaritana Egli rivelò, nell’ascolto e nel dialogo, il dono di Dio e la sua stessa identità». Così si tratta di «partire dal Vangelo della Misericordia», «assumere la storia all’interno della teologia», garantire la «libertà teologica», conclude il Papa con le parole della sua esortazione «Evangelii Gaudium»: «A quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione. Ma la realtà è che tale varietà aiuta a manifestare e a sviluppare meglio i diversi aspetti dell’inesauribile ricchezza del Vangelo».



Gian Guido Vecchi, corriere.it

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