fede

Bagnobianchi, stimmate: Frate Francesco, la volpe e l’ultimo sigillo

Giorgio Bagnobianchi Paolo Baratella
Pubblicato il 15-09-2020

Mormorava Francesco mentre si batteva il petto con la mano

Sulla sponda del torrente Tescio, l’erba secca, lasciata da un’estate particolarmente assolata, cominciava a sparire, nascosta dai ciuffi verdi fatti crescere da un gran temporale che aveva dato nuova forza a tutta la vegetazione e ringalluzzito anche il vicino fiume Chiascio. Proprio nel punto in cui il torrente Tescio incontra il fiume Chiascio, Francesco, come sospeso in luogo deserto e solitario, si era inginocchiato in fervida preghiera, dimentico delle tre comari che nel torrente erano intente a lavare i panni, cantando, e di Ottavio che stava caricando sul suo biroccio le pietre di fiume.

Signore, cosa vuoi da me?” Mormorava Francesco mentre si batteva il petto con la mano destra e chinava il capo, perso nel suo colloquio con Domine Iddio. Vicino al Frate, l’erba ondeggiava impercettibilmente come sfiorata da un’inesistente brezza, ma Francesco di nulla si accorgeva tanto era concentrato nella preghiera. Improvvisamente, giù dal cielo piombò un falchetto che, con destrezza, afferrò una biscia che strisciava lì vicino cercando di mimetizzarsi, verde com’era, tra l’erbetta appena nata. Francesco fu brutalmente riportato alla realtà. Il falchetto, nascosta la biscia in un luogo sicuro con l’intendimento di tornarvi poi a mangiarla, aveva ripreso a volteggiare in cielo alla ricerca di un’altra preda. “Fratello falco – lo apostrofò Francesco alzatosi in piedi – sei sporco del sangue di una povera bestiola.”

Il falco continuò a volare ignorando il Frate. Ottavio, intanto, aveva quasi completato il carico di pietre e le tre donne avevano smesso di cantare, concentrate nel risciacquo finale dei panni. “Falco, falco insensibile, hai ucciso una biscia!” A questo punto il falchetto planò vicino a Francesco. “Frate, ho catturato la biscia perché mi devo nutricare. La biscia a sua volta si sarà nutricata di topolini di campagna e altre bestioline: è la catena del vivere!… o tu vivi senza nutricarti?” Francesco si era appartato in quel luogo per pregare Domine Iddio acciocché lo aiutasse nelle tante inquietudini che lo angustiavano, sciogliesse le tante domande che si poneva e alleggerisse il gravoso fardello delle responsabilità che sentiva verso i confratelli. Ora si palesava anche, inaspettata, questa cattura che l’uccello aveva fatto davanti ai suoi occhi e senza che lui avesse potuto far nulla. Ancora una volta era di fronte alla bellezza e contemporaneamente alla crudeltà della natura.

“A questo serve la tua vista acuta?... a sorprendere una povera bestiola che strisciava verso la tana!?… ed io che ho pregato Domine Iddio di darmi una vista acuta come la tua per incrociare il Suo amore!” Il falchetto scosse il capo perplesso e, così facendo, una goccia di sangue schizzò sulla tunica rattoppata di Francesco; poi, noncurante, si levò in volo. Francesco, amareggiato, si avviò per rientrare al Convento della Porziuncola. Appena Francesco fece il suo ingresso nel Convento, frate Masseo, di ritorno da San Damiano dove aveva affidato alle cure di Chiara e delle sue consorelle un infermo, gli andò incontro: “Francesco, ecco i danari che sorella Chiara mi ha affidato per acquistare della carne e nutricare tutti i confratelli; specialmente sorella Ortolana si preoccupa che si aggiunga un po’ di carne al nostro desinare.”

Francesco fu preso da interiore allegrezza perché colse in questo gesto un segno di condivisione nelle responsabilità verso i fratelli e ringraziò Domine Iddio per il cenno avuto tramite la sollecitudine di Chiara. Col passare dei giorni però l’ansia del Poverello non si era placata. “Signore, cosa vuoi da me?” Era l’invocazione che continuamente costituiva la sua preghiera, il suo rovello. Nel giorno dedicato alla Beata Vergine Maria Francesco chiese a frate Leone di accompagnarlo sul monte de La Verna dove avrebbe potuto digiunare e pregare Domine Iddio, la Beata Vergine e l’arcangelo Michele. Fu così che Francesco e Leone partirono alla volta del romitorio de La Verna.

verso il monte de La Verna

Sotto un cielo carico di nuvoloni neri, mentre in lontananza si udiva il brontolio del tuono, i due confratelli giunsero ai piedi del monte che il Conte Ottavio aveva donato ai Frati Minori. Leone cercava di accelerare il passo nella speranza di giungere al romitorio prima dello scatenarsi dell’acquazzone, mentre Francesco si attardava attratto da ogni piccolo fiore e pianticella sbocciata ai margini del viottolo che si snodava nel folto bosco di faggi e abeti. “Guarda Leone come questa erba si appoggia all’albero… convivono insieme in armonia! Anche i vegetali ci invitano all’amore reciproco!”

Le nuvole incombenti e il maestoso groviglio della vegetazione spingevano Leone ad accelerare il passo per sfuggire all’acquazzone ma spesso doveva fermarsi per attendere Francesco che si attardava affascinato dai colorati frutti della terra. In prossimità del romitorio, frate Leone, stanco di aspettare Francesco che continuava ad attardarsi: “Fratello, fermati pure quanto vuoi, io ti precedo, vado diretto verso il romitorio. Ti aspetterò lassù!” Gli disse Leone con un tono forse un po’ brusco. Francesco si ritrovò ad avanzare da solo nel bosco e nel cuore patì lo sbrigativo allontanamento del compagno. Fu così che Francesco venne abbandonato da frate Leone, il suo confratello, amico e compagno più caro.

Ad un certo punto il bosco diradò e il viottolo si aprì in uno slargo verdeggiante dove, contiguo a tre faggi, svettava un gran noce. Francesco si fermò incuriosito per la singolarità dell’albero all’interno di quella faggeta. Lo stupore del frate aumentò quando migliaia di volatili, giunti da tutte le direzioni, si posarono sulla pianta. Francesco e gli uccelli si osservarono, reciprocamente, in silenzio per un tempo che sembrò lunghissimo. “Fratelli, lodiamo insieme Domine Iddio per l’amore che ci mostra, per il sole con cui ci illumina, per i frutti della terra che ci dona per nutricare noi e tutte le creature!” Nella luce del giorno che andava scemando, la moltitudine degli uccelli posati sul noce rimase muta. Francesco vacillò, scosso da questo silenzio. “Uccelli, uccelli a me cari, a Pian d’Arca abbiamo lodato insieme il Signore. Il vostro canto e il volo collettivo, con cui avete disegnato nel cielo una grande croce, sono stati segno dell’amore a Domine Iddio. Cosa accade ora? Siete diventati improvvisamente muti?”

Gli uccelli, così come erano arrivati, volarono via in tutte le direzioni. Frate Francesco si sentì rinnegato dai suoi amici uccelli e provò una profonda solitudine d’amore. Sentiva crescere nel cuore una pena sorda e, per un attimo, temette di esser stato abbandonato da Domine Iddio. Angosciato riprese il cammino verso la sommità del monte. L’ascesa si era fatta via via più difficoltosa per il rapido annottare. Ad un certo punto Francesco percepì di non esser più solo: una volpe zoppa e spelacchiata gli si era silenziosamente affiancata. “Dove stai andando, sorella volpe, così malridotta e sporca come sei?”

“Mi dirà anche lei, come il falchetto, che ha ucciso per nutricarsi- pensava- porta ancora addosso un po’ di penne della poveretta!!” La volpe, invece, cominciò un suo inverosimile racconto: “Sono stata a far visita ad una mia amica donnola che vive laggiù in pianura. Poverina è malata e nessuno la frequenta più! La sua tana è così sporca che ci sono ancora le penne di una gallina morta di freddo ben sei mesi fa! Tu, invece dove stai andando?” “Sono diretto versa la sommità del monte, verso la capanna che c’è lassù.”

La volpe si offrì di guidarlo al romitorio ma al primo bivio lo indirizzò nella direzione opposta: forse perché trovava difficile esser sincera! Fu così che Francesco venne ingannato da una volpe sventurata e bugiarda. Il Poverello continuò ad avanzare convinto di essere ormai vicino al romitorio, mentre se ne stava purtroppo allontanando. Il monte si era fatto più aspro; gli alberi nascondevano massi e dirupi scoscesi; la strada era divenuta impervia ed insidiosa. Fu allora che Francesco udì una voce che pareva cantare una preghiera: era, forse, frate Leone che innalzava lodi a Domine Iddio? Si diresse verso quel suono melodioso ma la voce cavalcava le folate di un vento gelido, improbabile in piena estate: un attimo era vicina, l’attimo dopo molto lontana… finché, come era iniziata, così scomparve.

Francesco, disorientato e stanco, inciampò su di un sasso e cadde rovinosamente. Disteso a terra, incapace di rialzarsi, passò l’intera notte pregando San Michele perché lo irrobustisse nella Fede e gli desse la forza di superare tutte le difficoltà in cui si stava dibattendo. Fu così che Francesco venne tradito da una voce misteriosamente portata dal vento. Solo al levar del sole, Francesco, con grande sforzo, riuscì a rimettersi in piedi e a riprendere il cammino. Ben presto però, non riuscendo ad orientarsi, si trovò difronte ad una voragine. Uscì dal bosco, proprio in quel momento, un pastore giovane e robusto. Fu a lui che Francesco chiese in che direzione andare per raggiungere il romitorio.

Il pastore, invece di rispondere alla domanda, cominciò a divagare, a fare strane considerazioni sul frate stesso, come se lo conoscesse. “Frate mi sembrate molto provato. Le responsabilità che avete nei confronti dei vostri confratelli chiederebbero un vostro migliore stato di salute, una maggiore energia… dovreste, insomma, essere più giovane, più aitante, meno malato e poi… a che vi serve predicare la povertà? La povertà… è povera! Le lodi che innalzate al vostro Dio chiederebbero più impegno, più risorse, chiese più ricche e adeguate al Padreterno… io posso aiutarvi dandovi tutta l’energia che occorre per predicare a tutti gli animali di questo monte e a tutti gli abitanti di questi contadi, anzi riuscireste a convincerli a glorificare il vostro Dio costruendo qui una Chiesa piena di preziose suppellettili… io posso...“

Francesco che camminava sull’orlo del burrone, si fermò e guardò più attentamente il giovane. Ad un primo momento gli era sembrato, anzi aveva sperato, che fosse Michele Arcangelo in guisa di pastore, accorso alle sue preghiere per aiutarlo, ma… quanto stava sentendo lo impensieriva non poco. Ebbe in cuor suo la percezione netta che fosse sì un angelo, ma uno di quelli ribelli che si erano posti contro Domine Iddio. Aveva appena formulato questo pensiero, che il pastore repentinamente si mutò in un angelo di fuoco irruente e scellerato, che lo spinse con una forza bestiale, inutile data la sua debolezza, giù verso il precipizio. Francesco rotolò fino ad un cespuglio che, provvidenziale, fermò la caduta. Fu così che Francesco venne tentato dal Dimonio e rifiutò in cuor suo le diaboliche proposte.

La volpe, che aveva assistito a tutta la scena, nascosta dietro un cespuglio, appena l’angelo scomparve, mossa a compassione, prese a scendere zoppicante lungo il ripido pendio rischiando essa stessa di finire nel fondo del burrone. Giunta accanto al frate, gli si accovacciò dalla parte del vuoto e rimase al suo fianco ad impedire che cadesse definitivamente nel baratro. Fu così che Francesco venne aiutato dalla volpe sventurata e bugiarda. Dopo alcune ore spuntò da dietro un masso gigantesco frate Leone. “Francesco, Francesco finalmente ti ho trovato!” Grande fu la meraviglia di Leone vedendo che Francesco era caduto proprio nella frattura apertasi nel monte durante il terremoto che aveva scosso la terra alla morte di Gesù Cristo e che una bestiola lo stava proteggendo. Leone aiutò Francesco a sollevarsi e i due confratelli si abbracciarono. Il cuore di Francesco fu pieno di letizia per l’amico ritrovato. La volpe era scomparsa nel bosco.

nel romitaggio de La Verna

Francesco trascorreva le giornate nella preghiera e nel digiuno spostandosi dalla capanna verso una zona del monte assai scoscesa, ricca di rocce e priva di vegetazione. Il frate era talmente immerso nel suo colloquio con Domine Iddio da non accorgersi che la volpe lo raggiungeva quotidianamente, lo osservava e gli restava vicino, in silenzio. Una mattina, però, la zoppia dell’animale, lo tradì: la volpe scivolò e rumorosamente cadde sulla roccia. “Sorella volpe ti sei fatta del male?” Chiese Francesco con ansia. “No, soffro certamente meno delle tue povere ginocchia costrette a stare per giornate intere sul breccino!” Ribatté la volpe imbarazzata dall’esser stata sorpresa a sbirciare le giornate del frate.“Il dolore è sempre un aspetto dell’amore. Amare vuol dire anche provare dolore.”

Spiegò Francesco. “Il mio amore per Cristo in Croce è immenso e questo amore vorrei che mi facesse sentire tutto il dolore che Cristo ha provato nel suo gesto d’amore. Amare è condividere gioia e sofferenza!” La volpe, colpita dalle parole del frate, scantonò via ma il giorno dopo era ancora lì, accanto a Francesco assorto in preghiera. “Non so come tu possa lodare nostro Signore! Certamente la tua presenza qui accanto a me, mentre prego, ti fa partecipe delle mie lodi!”Le disse amorevolmente il frate. Fu così che Francesco coinvolse la volpe, sventurata e bugiarda, nella sua conversazione con Domine Iddio e, nel cercare di descrivere alla piccola creatura il suo sentire, andava a stemperare incertezze, tristezze e dubbi che spesso lo assalivano. Parlare con la volpe lo rasserenava, talvolta, addirittura, lo rallegrava. Si approssimava intanto la festività di San Michele Arcangelo, Santo di cui il Poverello era molto devoto.

Una sera, sul far del tramonto, comparve in cielo un Serafino con sei ali, di cui due fiammeggianti, in guisa di uomo crocifisso. Francesco fu preso da contrastanti sentimenti: era triste e lieto contemporaneamente. “Signore cosa vuoi da me?” Ripeteva mentre l’angelo volteggiava su di lui. Improvvisamente, cinque raggi di luce potenti e sfavillanti colpirono le mani, i piedi e il costato di Francesco: lo segnarono come Cristo sulla croce. Frate Francesco provò dolore e amore nello stesso momento. Nella semioscurità del tramonto, tutti gli abitanti delle vallate che si aprono intorno al monte de La Verna, fino alle più lontane contrade del Casentino, videro la sommità della montagna, dove la terra si era aperta in una gigantesca ferita nel momento della morte di Cristo sulla Croce, incendiarsi di un bagliore accecante. Sembrava che i boschi e le macchie stessero bruciando.

Scese poi il buio della notte. Francesco era rimasto a terra, lungo disteso, in estasi, con negli occhi ancora la luminosità del momento appena vissuto. Fu la volpe che, rapida quanto la zoppia le poteva consentire, corse al romitorio ad avvertire di quanto stava accadendo. Frate Leone era intento a scrivere delle sue memorie, alla luce di una candela. “Leone, Leone corri da Francesco: ha bisogno della tua presenza!” Ansimò concitata la bestiola. Frate Leone non si stupì particolarmente dello strano messaggero, vista la familiarità del confratello con le creature del buon Dio, e immediatamente raggiunse Francesco. “Guardami Leone, guarda i segni che il Serafino mi ha impresso, guarda i sigilli che hanno segnato il mio corpo delle stesse ferite del Cristo. Ora, finalmente, sono sereno: il temporale spirituale che tanto mi ha angustiato, si è dissolto. Son certo che la strada, fatta di amore, semplicità e povertà, è quella che annuncia l’Evangelio.” Così disse Francesco.

I due fraticelli si abbracciarono, resero grazie al Signore e lentamente tornarono al romitorio. Il mattino successivo partirono verso Assisio e programmarono di pernottare presso un amico, il Conte Alberto del Castello di Monteauto, vicino al borgo di Anghiari. Leone registrò sulla pergamena questo prodigio mai verificatosi prima e custodì lo scritto fino alla sua morte.

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