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Odissea e paura: i viaggi di rientro in Italia per coronavirus

Felice Florio Ansa - Alessandro Di Marco
Pubblicato il 06-04-2020

Stavano svolgendo un anno di studio all’estero, interrotto bruscamente dall’emergenza

Elena, Martin, Vittorio: provengono da tre zone diverse di Italia e, negli ultimi giorni, per arrivarci hanno dovuto affrontare molte traversie. Prima di arrivare a Iglesias, in Sardegna, Elena ha dovuto viaggiare per 120 ore: si trovava nell’isola di Bohol, nelle Filippine, per un anno all’estero con Intercultura. In piena emergenza sanitaria ha dovuto prendere un piccolo autobus, una barca e cinque voli aerei pur di tornare a casa.

Odissea
«La sera di lunedì 23 marzo con l’aiuto di Intercultura, del consolato delle Filippine a Cagliari, del ministero degli Affari esteri a Manila e del dipartimento del Turismo locale, sono riuscita a trovare una soluzione di viaggio, seppure non facile né veloce». Elena è dovuta partire quella stessa notte: «Ho fatto le valigie in un’ora e sono uscita di casa verso le 3 del mattino». Il suo viaggio è durato cinque giorni, dal 24 al 29 marzo, e la 17enne lo racconta così.

Paura
«Sono rientrato dal Brasile la sera del 30 marzo dopo un viaggio devastante durato quattro interminabili giorni». Martin ha dovuto prendere quattro voli prima di fare ritorno a Bergamo, passando «notti insonni per la fine violenta della mia esperienza di studio all’estero».
Martin racconta di aver capito per la prima volta il significato della parola “paura” quando è atterrato in Europa: «Controlli continui della temperatura, forze dell’ordine che urlavano nell’aeroporto di Francoforte semi-deserto. È stato il viaggio da Malpensa a Bergamo – dopo aver fatto scalo a Fiumicino – che mi ha davvero spaventato: ho visto dal finestrino un Paese irriconoscibile».

Interrogatorio
Anche Vittorio si trovava all’estero per un anno di studio con il programma Intercultura. Era il più vicino geograficamente dei tre, ma per tornare dalla Danimarca in Salento ha dovuto comunque viaggiare per due giorni pieni. «È stato come essere sotto interrogatorio: le autorità tedesche all’aeroporto di Francoforte si sono irrigidite quando mi hanno sentito parlare italiano».

I volontari dell’associazione dicono che «è stato particolarmente difficile organizzare il rientro dei ragazzi dal Paese scandinavo: era come se gli aspetti burocratici prendessero il sopravvento sulla necessità di far rientrare dei minorenni a casa». Il 17enne è partito da Copenaghen, ha fatto scalo a Francoforte, Milano e poi, una volta a Roma, è tornato in Puglia con l’auto di suo padre.

«Ci sono una trentina di ragazzi bloccati ancora all’estero»
Ad oggi sono 1.179 gli studenti del programma Intercultura che sono riusciti a rientrare in Italia, su circa 1.200. «Abbiamo ancora circa una trentina di studenti in diversi Paesi per cui stiamo organizzando il rientro», spiega Andrea Franzoi, segretario generale dell’associazione. «Tra questi, il gruppo più numeroso è quello in Nuova Zelanda, per il quale siamo in contatto quotidiano con l’Ambasciata e auspichiamo che si possa trovare presto una soluzione».

«Si tratta – aggiunge Franzoi – di uno sforzo organizzativo ed economico enorme che la nostra associazione sta mettendo in campo e che non avrà termine fino a quando non saremo riusciti a fare rientrare tutti i ragazzi in Italia. Questa pandemia – conclude – ci sta facendo riflettere una volta di più su quanto il mondo e le persone che lo abitano siano ormai interconnessi e di come sia necessario imparare a vivere insieme. Auguro ora a questi adolescenti di potersi reinserire serenamente in famiglia e nella loro comunità, a partire dalle loro scuole». (Open.online)

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