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Brexit, Johnson sconfitto in Parlamento

Alessandro Rizzo pixabay.com
Pubblicato il 20-10-2019

Passa la mozione che rinvia il voto sull’accordo.

Ulteriore battuta di arresto per la Brexit e altra umiliante sconfitta per Boris Johnson: i deputati hanno rinviato quello che doveva essere un voto decisivo, prendere o lasciare, sull’accordo di divorzio tra Londra e Bruxelles, proprio quando la vittoria per il premier sembrava a portata di mano.

La decisione in una storica seduta ai Comuni lascia l’accordo negoziato da Johnson in una sorta di limbo, e con esso la strategia tutta del premier. Getta nel caos, ancora una volta, il percorso di uscita del Paese dall’Unione Europea, forzando il premier a chiedere un rinvio che aveva giurato di evitare con tutte le sue forze. È stato un Johnson sprezzante quello che ha preso la parola in un’aula gremita al termine della seduta. «Non negozierò un rinvio con l’Unione Europea, né la legge mi impone di farlo», dice.

I deputati si erano riuniti nella prima riunione di sabato da quasi quarant’anni, una misura straordinaria che tradizionalmente avviene se il Paese è in guerra. La Gran Bretagna non è in guerra ma è in una crisi profonda, e i deputati avrebbero dovuto votare la ratifica dell’accordo sulla Brexit.

La paralisi Johnson nel suo discorso di apertura ha usato toni concilianti, ben lontani dalla retorica militaresca del passato. Ma non è bastato. I deputati hanno votato 322 a 306 a favore di un emendamento che vincola l’approvazione dell’accordo a quella dei decreti attuativi necessari. Un dettaglio tecnico, ma ricco di implicazioni.

Il governo ha immediatamente ritirato il voto sull’accordo di uscita, diventato da decisivo a meramente interlocutorio, e così quello che doveva essere un «Super Sabato» è diventato il paradigma della paralisi della Brexit. Furioso il governo, che dopo giorni di pressing sugli indecisi sperava di essere vicino alla vittoria. Euforici i manifestanti radunati in piazza del Parlamento per chiedere un secondo referendum. (La manifestazione di centinaia di migliaia di persone ha vissuto momenti di tensione quando alcuni ministri sono stati coperti di insulti all’uscita da Westminster e hanno avuto bisogno della scorta della polizia).

Johnson, che finora ai Comuni ha perso praticamente tutti i voti, sta imparando cosa significhi governare senza una maggioranza. Ma la manovra dei deputati (l’emendamento è stato presentato da un ex Tory espulso dal partito) restituisce anche il senso di quanto profonda sia la spaccatura tra il governo e il Parlamento: nessuno o quasi si fida di un primo ministro spregiudicato, che non ha esitato a sospendere i lavori parlamentari salvo essere smentito dalla Corte Suprema, e del suo braccio destro Dominic Cummings, sbeffeggiato in piazza come un nazista dai tratti demoniaci.

La lettera a Bruxelles Johnson studia le prossime mosse. Una legge gli impone di chiedere ai 27 un rinvio, e le opposizioni non faranno sconti. Ma il premier ha scritto ai deputati dicendo che non vuole negoziare il rinvio con la Ue. Il leader laburista Corbyn gli ha intimato di rispettare la legge, altri hanno minacciato di portarlo in tribunale.

Il premier ieri sera ha annunciato l’invio di una lettera senza firma all’Ue per chiedere una proroga della Brexit oltre il 31 ottobre, come imponeva il Benn Act: la legge anti-no deal approvata a settembre dai suoi oppositori in Parlamento per obbligarlo a farlo laddove un accordo di divorzio non fosse stato ratificato entro le 23 di ieri. Si tratta però di un passo meramente formale, come Boris ha spiegato in aula: «Dirò agli amici nella Ue la stessa cosa che vado ripetendo da quando sono diventato primo ministro 88 giorni fa: che un ulteriore rinvio sarebbe pessimo per il nostro Paese, per la Ue e per la democrazia». In serata Johnson ha inviato una seconda lettera al presidente dell’Unione europea, Donald Tusk, nella quale il premier britannico smentisce la necessità del rinvio oltre il 31 ottobre. Ma la decisione è nelle mani di Bruxelles.

Alessandro Rizzo - La Stampa

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