Le visite dei pontefici
Contro l'assenza non si vince mai
L'illusione assai comprensibile e umana che il dolore a un certo punto possa rimarginarsi, che possa rapprendersi tutto in quella scatola del tempo che è il ricordo per poi farsi svogliatamente addomesticare e seppellire in un punto imprecisato della nostra memoria è "un pensiero da quattro soldi". A sostenerlo è il Premio Nobel per la Letteratura Vidiadhar Surajprasad Naipaul (1932-2018) in Dolore, un breve eBook con cui Adelphi in periodo di quarantena inaugura la sua collana tutta digitale "microgrammi".
Si tratta di uno degli ultimi testi vergati dallo scrittore originario di Trinidad e naturalizzato britannico, e anche uno dei più personali e diretti. Apparso per la prima volta sul New Yorker nel gennaio 2020 e tradotto oggi da Matteo Codignola, è un racconto autobiografico dalla scrittura tersa e ispirata, che affresca la tematica del dolore e della perdita con lo stesso tratto solenne, acutissimo e definitivo dei suoi grandi capolavori (Sull' ansa del fiume, La metà di una vita, Lo scrittore e il mondo, tra i tanti).
A partire dall'impossibilità di affrancarsi davvero dalla perdita delle care presenze che costituiscono lo stilobate di quel tempio di abitudini ed egoismi che abbiamo eretto e chiamiamo esistenza, Naipaul racconta della morte di suo padre, giornalista del Trinidad Guardian, avvenuta quando Vidiadhar ventunenne era ancora studente a Oxford e non sapeva nulla delle questioni importanti della vita; di come deve in qualche modo al padre, e al di lui desiderio di diventare scrittore con modesti tentativi di racconti umoristici, la propria determinazione con cui appena trentenne inizia a scrivere, decidendo che la letteratura sarebbe stata il suo avvenire.
Tuttavia, quando attraverso la scrittura Naipaul crede di aver come estinto il suo debito con il dolore, ecco che muore Shiva, il fratello minore, per problemi di alcol. "Il dolore è sempre in agguato - leggiamo -. Fa parte del tessuto stesso della vita. È sempre sulla soglia. L' amore impreziosisce i ricordi, e la vita; il dolore che ci aspetta è proporzionato a quell' amore, e inevitabile".
La morte del fratello, anch'egli scrittore e con cui aveva un rapporto conflittuale (pure per via del diverso successo con cui interpretavano lo stesso mestiere eletto), riapre il vaso di Pandora del dolore: rimpianti, rimorsi, non detti, nostalgie, dimenticanze, atti mancati. Nuovamente, il dolore lo sorprende, si impadronisce della sua esistenza. "Non avevo idea di quanto sarebbe durato - prosegue -. Per due anni avevo datato tutto, compreso l'acquisto di un libro, a partire dalla morte di Shiva".
A completare questa divagazione, l'inesorabile dipartita dopo un lento declino del gatto di casa, Augustus. Il paradosso che Naipaul affronta in questo corpo a corpo col dolore sulla pagina, e con cui fatichiamo a venire a patti, è che per quanto possiamo dirne e discettarne in libertà la morte non è la fine della vita.
Ben lungi da considerazioni teologiche, potremmo anzi spingerci a sostenere - quasi fossimo intrappolati nella scatola di Schrödinger insieme al gatto, il martello, la fiala di veleno e il contatore - che la morte "è anche" la vita, poiché dietro ogni segno di vigore si può celare l'annuncio della rovina, come pure è vero che dentro ogni momento luttuoso la beffarda, imprevedibile e prodigiosa corsa della vita non si arresta mai. (Il Fatto Quotidiano)
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