Le visite dei pontefici
Reportage della Stampa
Alla frontiera è una notte senza luna, nuvole basse e zanzare. Una notte perfetta per saltare il muro. Samir, Achmad e Saray hanno preparato il piano parlando per tutto il pomeriggio: due bottigliette d’acqua a testa, biscotti, mandorle, regole chiare. «Niente panico in caso di polizia, niente luce, niente telefono, meglio staccare anche la connessione.
Ho paura che possano scoprici tracciando il gps», dice Samir Kourdiy. È il più carismatico del gruppo. Lo ascoltano come fosse un condottiero. Ha 24 anni, ha studiato ingegneria. Porta un cappellino da baseball rivoltato al contrario e una barba folta e nera, a metà strada fra l’Europa e l’islam. Arrivano tutti da Aleppo, Siria. Sanno bene cosa li aspetta, ma Samir Kourdiy dice frasi definitive: «Quello che sta succedendo in Siria non interessa a nessuno. È una guerra totale. Tutti contro tutti: i ribelli, quelli dell’Isis, le bombe scaricate dal dittatore Bashar Al Assad. Non è rimasto niente. Luce, cibo, vita. Siamo dovuti partire. Ma chiedi a chiunque, voltati, domanda a caso a tutta questa gente che si è ritrovata qui. Vedrai cosa ti risponderanno: il nostro sogno è poter tornare un giorno in Siria e ricostruire il Paese».
Gli amici abbassano lo sguardo. Quasi si sentono in colpa di aver scherzato fino a cinque minuti prima, di essere allegri. Achmad Saiid chiedeva informazioni sulla Spagna. «La vita è bella, vero? Si sta bene? Ho un amico carissimo. Potrei lavorare nel turismo. Conosco l’inglese. Facevo traduzioni…». Saray Abed, invece, era davvero emozionato: «Italiano? Del Piero, Del Piero!». Non smetteva di complimentarsi. Lui è il classico amico che ti solleva il morale nei momenti bui. Con la borsetta a tracolla, con la maglietta a righe orizzontali bianche e azzurre. E sopra scritto: «Fashion». «Del Piero è il più forte di tutti. Sei di Torino? Non ci credo! Possiamo fare una foto insieme? Voglio venire a trovarti, voglio vedere la città di Del Piero. Però prima vado in Germania».
Un fiume umano
Intanto, sono qui con altre cinque mila persone in attesa, tutte arrivate lungo la stessa rotta: Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia. Adesso, c’è il muro. Di là, c’è l’area Schengen, l’Europa, Del Piero, Torino, la Spagna, la Germania, la Svezia, qualsiasi sogno tu abbia la forza di sognare. Ma per arrivarci, non devi farti prendere le impronte digitali dai poliziotti ungheresi. Questo dicono i trattati internazionali: diventi rifugiato politico nel primo posto in cui vieni identificato. Se vuoi proseguire il viaggio, l’unica strada è saltare il muro. E correre forte. «Noi non daremo mai le nostre impronte agli ungheresi», dice Samir Kourdiy. «Ci odiano perché siamo musulmani. Sembra di essere tornati indietro alla seconda guerra mondiale. Al tempo del nazismo».
Horgoš è un paese di 5700 abitanti, l’ultimo prima dell’Ungheria. Raccontano che sia stato costruito da un principe 200 anni fa, ma è difficile crederci. Case sventrate. Cavalli magri. Carretti. Biciclette. Due piccoli supermercati presi d’assalto dai profughi. Si lavano a una fontanella di fronte all’unica banca fallita e chiusa. Quando arrivi, ti sembra di essere dentro un film del genere sgangherato balcanico. Cinque poliziotti insofferenti aspettano all’incrocio, scacciando le mosche. Chiunque passi da quelle parti, arrivando a piedi dai campi o scaricato dai pullman istituiti dal governo serbo, si sente gridare in faccia la stessa identica frase: «Di là, binari, Ungheria!».
I varchi ancora aperti
C’è ancora un varco aperto nella frontiera. Una breccia nel muro. Accomodatevi. Bisogna percorrere quattro chilometri sull’unico binario sudicio. Segui le traversine, stacchi una pera per placare la fame, cerchi un po’ di intimità fra gli alberi di prugne, vedi i segni di altri uomini ed altre donne passati prima di te. Passi il confine e arrivi dritto davanti a un camion dell’esercito ungherese. I poliziotti ti fanno salire, dopo un’attesa estenuante. Ti portano in un centro di identificazione a Debrecen, ed è finita. Se la commissione giudicherà fondata la tua richiesta di asilo politico, resterai in Ungheria. «Mai!», dice Samir Kourdiy. «Piuttosto moriamo qui in Serbia».
Sui binari si incammina chi non ce la fa più, chi ha deciso di arrendersi. Sono moltissimi. Più di 2 mila al giorno. Centinaia di bambini. Per esempio Taleb Alzoy, il libraio di Aleppo, che porta sulle spalle la figlia Rouhna di 4 anni: «Siamo stremati. Non possiamo scavalcare il muro in queste condizioni. Mia moglie non ce la fa». Vanno in fila. Occupano i binari. Qualcuno si è fermato a dormire ai lati della massicciata. Fa caldo. Hanno bisogno di un bagno. Hanno bisogno di tutto anche se non chiedono niente. C’è Delly Tahier rimasto paralizzato in un incidente d’auto che va avanti sulla sedia a rotelle spinta dalla moglie, finché il prato costeggia la ferrovia. Poi viene preso in braccio a turno. Il più anziano del gruppo si chiama Mohamed Hame, faceva l’autista di camion ad Aleppo, 74 anni, vorrebbe raggiungere il figlio Hamde in Danimarca. Ma chi va sui binari si consegna ai poliziotti. Per sfinimento. Oppure per ingenuità. «Dov’è Budapest? Dove ci portano adesso?». (La Stampa)
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