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Migranti italiani, ecco perché ora se ne vanno le famiglie

Viviana Daloiso Freepik
Pubblicato il 26-10-2019

La chiamano la “nuova famiglia italiana”. E in Italia non vive più. Mario e Lucia, col piccolo Samuel (8 anni), sono a Colonia da 10 mesi. Ingegnere lui, ricercatrice lei, hanno deciso di partire da Salerno «perché volevamo di meglio». Lavoro? «No – spiega lui – quello l’avevamo entrambi, e a tempo indeterminato. Io avevo appena ottenuto una promozione, anzi». E allora perché si lascia l’Italia? «Perché non basta più. Soprattutto per il futuro di Samuel».

Non solo studenti e neolaureati, giovani promesse della finanza, singoli individui in cerca di fortuna. Tra i 128.583 figli del Belpaese fuggiti all’estero nell’ultimo anno – l’equivalente di un’altra città come Sassari, o Latina, che è scomparsa dalla nostra cartina geografica – ci sono soprattutto famiglie, coppie con figli piccoli e piccolissimi.

Non è un caso se nel Rapporto sugli italiani all’estero della Fondazione Migrantes (e Avvenire lo aveva già anticipato prima dell’estate) proprio i minori rappresentano il 20,2% di chi si è registrato all’Anagrafe estera nel corso del 2018, ovvero quasi 26mila persone. E nemmeno se tra questi il 12,1% ha meno di 10 anni, il 5,6% ha tra i 10 e i 14 anni e solo il 2,5% tra i 15 e i 17 anni.

I numeri dicono, cioè, che se ne vanno preferibilmente le coppie più giovani, che hanno avuto un figlio da poco e che nella maggior parte dei casi non hanno fatto nemmeno tempo a sposarsi, o non hanno voluto. Segno tangibile di come l’Italia, oltre a non far nulla per promuovere la natalità e la formazione di nuove famiglie, stia facendo di tutto anche per allontanare quelle appena nate. Un disastro di portata epocale, guardando assieme ai dati degli espatri quelli demografici, che per l’anno in corso hanno evidenziato un ulteriore calo di 18mila nascite (appena 439mila le culle riempite, il minimo storico dall’Unità d’Italia). Il grande male del Paese, prima della “fuga di cervelli”, è la “fuga di vite”.

Le nuove famiglie non possono più aspettare, o accontentarsi. Sommando laureati e persone con un titolo post-laurea, ad andarsene in oltre la metà dei casi sono giovani genitori altamente specializzati, per la quasi totalità in possesso di un lavoro stabile. Che guarda caso, però, in Italia svolgevano un lavoro per il quale era necessario un titolo di studio inferiore a quello posseduto. La “fuga”, dunque, è sempre più spesso il risultato della sovra-educazione: sperimentare sulla propria pelle l’abisso tra livello di istruzione e collocazione professionale. Una piaga che all’estero guarisce nello spazio di pochi mesi: 2 su 3, fra gli intervistati, sono stati assunti e svolgono un lavoro a elevata specializzazione. Mentre tra i non laureati la percentuale di individui impegnata in una professione a media specializzazione supera il 50%. Risultato? Nessuno, una volta partito, vuole rientrare (appena il 15,6%).

Un aspetto inedito dell’analisi, che occupa uno dei capitoli più innovativi del Rapporto di Migrantes – al centro, uno studio commissionato dalla Federazione Acli Internazionali su 900 famiglie in 16 città d’oltreconfine – è quello che riguarda le donne. Che all’estero si realizzano. Il tasso di occupazione delle mamme intervistate vola infatti all’83,8%, mentre quello di inattività è di poco superiore all’11%. Numeri d’impatto, considerando che le donne occupate in Italia sono poco meno del 50% e che uno degli elementi che nel nostro Paese condiziona in negativo la partecipazione femminile al mercato del lavoro è proprio la presenza di un figlio in età pre-scolare: ebbene, tra le donne che hanno scelto di espatriare e che hanno almeno un figlio con meno di 6 anni il tasso di occupazione è del 66,1%.

Segno che andarsene, per molte di loro, ha rappresentato la possibilità di inaugurare o consolidare la propria presenza nel mercato del lavoro, anche a prescindere dai carichi familiari. Di più: le coppie all’estero che occupano posizioni professionali appartenenti alla stessa classe occupazionale sono il 41,3% del campione. La mobilità, cioè, ha anche permesso un relativo riequilibrio delle differenze tra i partner, mentre in una coppia italiana nella quale lavorano entrambi i membri, spesso, una delle due occupazioni è ausiliaria (part-time, poco qualificata, con basse prospettive di carriera). Tipicamente, quella del partner femminile.

Nuove famiglie a parte, il Rapporto Migrantes torna a sottolineare anche l’inesauribile impoverimento del Sud: se negli anni successivi al Secondo dopoguerra, spiega il dossier, i flussi migratori verso le regioni centrosettentrionali erano prevalentemente costituiti da manodopera proveniente dalle aree rurali del Mezzogiorno, nell’ultimo decennio mediamente il 70% delle migrazioni dalle regioni meridionali e insulari verso il Centro e il Nord è stato caratterizzato da un livello di istruzione medio-alto.

È il gatto che si morde la coda: mentre il Paese si impoverisce, la parte più povera del Paese si impoverisce il doppio.

Il tutto sullo sfondo di una percezione della mobilità sempre più ideologica e lontana dalla realtà: mentre partivano 128mila italiani, nell’ultimo anno, sulle migrazioni – senza interrogarsi mai sulla società di partenza – si discuteva e polemizzava a tutti i livelli e in qualsiasi realtà territoriale della Penisola (ma anche in Europa) alzando muri, chiudendo porti, eliminando diritti solo per chi arrivava: «Qualsiasi migrante si prenda in considerazione da qualsiasi angolo della Terra arrivi e in qualsiasi luogo lui voglia andare invece – ha ricordato il segretario generale della Cei, monsignor Stefano Russo – va considerato persona migrante e, quindi, va accolto, protetto, promosso e integrato». La sfida che resta dirompente, allora, è quella «di costruire comunità che, pur conservando le rispettive identità culturali e religiose, siano aperte alle differenze e sappiano valorizzarle – ha concluso Russo –. Nello specifico comunità radiali e circolari, dove il senso di appartenenza viene modificato e mai cancellato, dove ogni persona possa sentirsi di appartenere non in modo esclusivo, ma possa poter dare un contributo e, allo stesso tempo, ricevere collaborazione».

Partono lombardi, veneti e siciliani

Il 2014 è stato l’ultimo anno che ha visto le partenze essere inferiori alle 100mila unità. Da allora l’aumento è stato continuo, sino a superare le 128mila partenze negli ultimi due anni. Non vive più in Italia l’8,8% degli italiani: un numero impressionante, soprattutto se si considera che dal 2006 al 2019 la mobilità è aumentata del 70,2% passando, in valore assoluto, da poco più di 3,1 milioni di iscritti all’Anagrafe estera a quasi 5,3 milioni. Il 71,2% di chi se n’ andato nel corso del 2018 ha scelto un Paese europeo, il 21,5% l’America.

Torna il protagonismo del Regno Unito che, con oltre 20 mila iscrizioni, risulta essere la prima meta prescelta nell’ultimo anno (+11,1% rispetto al 2017). Al secondo posto, con 18.385 connazionali, la Germania, seguita da Francia e Brasile. Con 22.803 partenze continua il solido “primato” della Lombardia, la regione da cui partono più italiani, seguita da Veneto (13.329) e Sicilia (12.127). AVVENIRE


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