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Il racconto. Il cimitero dei giubbotti di salvataggio nell'isola di Lesbo

Mario Scelzo Mario Scelzo
Pubblicato il 04-08-2019

Molyvos è una cittadina ricca e turistica, ma nella zona soprastante il paese c'è un cimitero particolare

Sono da poco tornato da una interessante e gratificante esperienza di “vacanze solidali” con la Comunità di Sant’Egidio sull’isola greca di Lesbo, durante la quale ho compiuto attività di supporto ai migranti, prevalentemente provenienti da Siria ed Afghanistan, ospitati nel campo profughi di Moria.

Al termine della settimana, in compagnia sia degli altri volontari italiani sia di un gruppetto di rifugiati afghani, diciamo “residenti stanziali” sull’isola e nostri validissimi aiutanti durante la settimana di lavoro, abbiamo visitato quello che viene chiamato il cimitero dei giubbotti, un luogo che a mio parere tutti una volta nella vita dovrebbero visitare. Provo a raccontarvi alcune sensazioni, accompagnando il tutto con alcune fotografie che aiutano a capire il contesto.



Metimna (anche se i locali continuano ad usare il nome bizantino di Molyvos) è una gradevole cittadina ricca di storia (vi si trovano reperti romani nonché un castello medioevale) posta sull’isola di Lesbo in Grecia. Effettivamente, guardandola con gli occhi del turista, si resta piacevolmente colpiti da un mare splendido e da panorami mozzafiato, che vagamente possono ricordare lo Stretto di Messina visto che ad un paio di kilometri dalla costa greca si trovano le coste della Turchia.

Molyvos (da qui in poi la chiameremo col nome locale) è però anche il punto dove le coste asiatiche della Turchia sono più vicine a quelle europee della Grecia, quindi questo stretto braccio di mare è divenuto negli anni il luogo dove avvengono la maggior parte degli sbarchi dei migranti. Proprio su una collinetta appena sopra il paese è nata in origine una discarica dove vengono raccolti i giubbotti di salvataggio abbandonati dai migranti appena sbarcati sull’isola.

Oggi il luogo è diventato una sorta di memoriale degli sbarchi (durante la nostra visita, abbiamo incontrato un gruppo di americani che sostengono i rifugiati tramite lo Yoga ed altre pratiche sportive), ma l’origine di tale luogo è puramente “organizzativa”: gli abitanti dell’isola, specie in questa zona dove è sviluppato il turismo, volevano nascondere dagli occhi dei visitatori le immagini che ricordano il dramma della immigrazione. Da quello che ci hanno raccontato, in questa zona è presente una forte componente di Alba Dorata (il partito neofascista greco) che come potete immaginare non vede di buon occhio gli sbarchi dei migranti.

A “scoprire” questo memoriale ci hanno pensato due inglesi, Eric e Filippa, una coppia di artisti che aveva scelto Lesbo come “buen ritiro” per le proprie attività ma che poi, toccati dal dramma degli sbarchi, hanno messo su una associazione dal nome “Project Hope” che in forme diverse cerca (e ci riesce eccome! Vi parlerò delle loro attività in un successivo articolo) di portare sostegno agli “ospiti”, si fa per dire, del campo profughi di Moria.

Vi propongo un breve estratto del reportage di Daniele Biella per “Vita”, che ben spiega le sensazioni di chi visita il “Cimitero dei Gommoni”:

“Eric Kempson mi porta sul rilievo montagnoso che si eleva alla costa, in un luogo tanto significativo da lasciare senza fiato e parole: il cosiddetto cimitero dei life jackets. Migliaia, anzi decine di migliaia, di giubbotti di salvataggio ammassati uno sopra l’altro, tolti nel tempo dalle spiagge dai volontari e posizionati in questo fazzoletto di terra. A presente memoria, più che futura. Eric riprende:

Tutti dovrebbero venire a vedere questo posto. È assurdo, e se ti metti a fare il calcolo della spesa che ogni persona ha dovuto sborsare per un giubbotto – almeno 100 dollari – e un passaggio – dai 500 dollari in su – impazzisci, perché ti rendi conto del guadagno dei trafficanti. Poi pensi a quante di queste persone sono rimaste senza vita in mare, e sprofondi.”


Personalmente, la visita al memoriale mi ha lasciato sensazioni contrastanti. A rendere surreale il tutto c’è il contrasto tra la bruttezza della discarica e la bellezza del panorama circostante, basta fare qualche passo ed oltre ad ammirare uno splendido panorama si notano ville con piscina e resort eleganti. Allo stesso tempo, come non pensare a chi non ce l’ha fatta, a chi, si pensi al piccolo Alan Kurdi (il bambino con la maglietta rossa, simbolo del dramma delle migrazioni), quel breve tratto di mare non è riuscito ad attraversarlo? Un mare che faceva venire voglia di fare un tuffo, un bacino che dovrebbe essere luogo di ristoro, che diviene una tomba per chi cercava un futuro migliore.

Camminando nella discarica, ci siamo imbattuti in una gamba di legno, a misura di adolescente. Chissà, un bambino saltato su una mina in Afghanistan, poi scappato dalla guerra coi genitori, per arrivare, si spera, nel campo profughi di Moria. Ce la avrà fatta? Sono domande che restano senza risposta, ma che dovrebbero spingere ognuno di noi a fare il possibile per evitare simili tragedie. Ci sono le Istituzioni ed i Governi, (che potrebbero incentivare ad esempio il sistema dei Corridoi Umanitari), ci sono le organizzazioni preposte, ma questo non vuol dire che ognuno di noi non possa dare il proprio piccolo o grande contributo per rendere il mondo un luogo più umano ed accogliente.



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