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Il bar cinese di Milano

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Un terrestre su cinque è cinese. Un bar di Milano su cinque, pure. Anzi, un po’ di più: uno su quattro e mezzo. Nel 2007 erano appena 120. Adesso sono 522 su 2.300 totali. In sei anni, una crescita del 335%, che non ha riscontri in nessun’altra città italiana. Terzi, dopo di loro e naturalmente gli italiani, gli egiziani, con un marginale 2%. Se poi a Milano aggiungiamo l’hinterland, i piccoli bar con titolare cinese salgono a 709. Il tutto mentre nella capitale dello shopping (ex?), da gennaio a oggi hanno tirato giù la saracinesca 140 vetrine, con la prospettiva di una Caporetto entro l’anno, comparto ristorazione compresa.

Milano in saldo, con i francesi di Lvmh, colosso del lusso, che si pappano la pasticceria Cova, due secoli di storia nel quadrilatero della moda, per una cifra superiore ai 12 milioni di euro offerti e rifiutati a Prada. E con i cinesi che invece scendono a pioggia, piccole gocce da 80 a 300 mila euro. Comprano o aprono ristoranti (e qui i prezzi salgono, fino al milione di euro): oggi sono 450 con la loro cucina, più 250 giapponesi, che di nipponico mantengono giusto il menù. Ma soprattutto collezionano, muri compresi, bar su bar su bar, a macchia di leopardo, dovunque ci sia un’occasione o un proprietario indebolito dalla crisi. Soldi in contanti (molto spesso), trattative sottobanco (molto spesso), due giorni di training per imparare l’indispensabile, e via che si parte. Un caso, un affare o una strategia?

La signora Huang Suping è consulente di Confcommercio, viene dallo Zhejiang, a sud di Shangai, come gran parte dei suoi connazionali “milanesi”.

La sua è una spiegazione quasi antropologica: «Da noi i bar non esistono, in Italia invece sono un classico, richiedono poco personale, piccolo investimento. Si può tentare. E poi i cinesi, al semaforo, non guardano se è verde o rosso: passano se vedono che gli altri passano. Così con gli affari: se uno ha successo con un’attività, altri lo seguono». E siccome gli altri sono tanti, 24.800 in regola solo a Milano, quadruplicati in 10 anni, prima città per presenze davanti a Roma (12 mila), Prato (11.800), Torino (5.400), l’effetto gregge ha risvolti considerevoli. Specie se si tiene conto che, secondo la Camera di Commercio, un cinese su 7 è imprenditore; che sono in genere lavoratori che non si risparmiano (e ancora meno risparmiano chi lavora per loro); e che infine hanno un accesso al credito che un italiano del 2013 se lo sogna e sulla cui tracciabilità regna una sorta di nebbia orientale.

Questo significa molte cose, tra le quali che se entri in un bar, escluso il centro centro (per adesso), hai buone possibilità di trovare le stesse cose che trovi nei bar italiani, solo che costano un po’ meno (il caffè, aroma discutibile, da 60 a 80 centesimi, invece di un euro), la qualità di piatti e panini non è eccelsa ma compensata dal risparmio sul prezzo, trovi aperto molto più a lungo e molti più giorni la settimana rispetto alla concorrenza e, se non guardi in faccia chi ti sta servendo, potresti essere in qualunque bar di Milano: rarissimi, e spesso assenti, oggetti o arredi made in China, le insegne restano quelle di una volta, giusto la tv sta sintonizzata non proprio secondo il sentimento popolare, nel senso che, se magari gioca l’Italia su RaiUno, sullo schermo c’è un film d’amore o uno spara-spara.

Il bar del Cerutti Gino («ma lo chiamavan Drago»), il biliardo con le lampadone verdi a illuminare il campo, la mensola con le coppe di chissaché, il fumo e il profumo del covo anti solitudine celebrato da Gaber, Jannacci e compagnia cantante, si è ristretto come un espresso. E al posto del rumore vellutato delle palle sul panno verde o del chiasso dei biliardini, adesso comanda la musica frenetica delle slot, tre attaccate alla rete (e quindi lecite) e magari due connesse col trucco (e quindi illecite), che la solitudine la impongono come regola del gioco e a quel punto, che a servirti una birra sia un mandarino o uno del Giambellino, cambia francamente poco. Sta cambiando invece, e tanto, l’anima operosa di Milano. All’imbocco di via Dante, elegante passerella pedonale che collega il Castello Sforzesco all’anticamera di piazza Duomo, ci sono due edicole, una gestita da un cinese, l’altra da un ecuadoregno: a consegnare i giornali all’alba viene un albanese. L’edilizia se la stanno prendendo i rumeni, come il giro delle badanti; le pulizie quelli dello Sri Lanka, i filippini (prima comunità, con 33.700 residenti) il ramo domestiche- domestici, gli egiziani (secondi per numero, 28.600) panetterie e pizzerie. Ma il vero sole nascente sono i cinesi. Il cognome più diffuso in città resta Rossi, ma al secondo posto c’è Hu, che scavalca Colombo, terzo, e surclassa Brambilla, tristemente nono.

Per i bar, come del resto per i parrucchieri da donna, non serve un grosso capitale d’ingresso, il costo del lavoro è azzerato nel senso che fanno tutto tra di loro, la deregulation sugli orari li ha favoriti, tengono i prezzi molto bassi. E poi, più in generale, c’è una percentuale di guadagno illecito, per esempio con le slot fuori legge o la merce taroccata, che lascia pensare che un po’ di organizzazione criminale, con legami con la ‘ndrangheta, avvocati eccetera, cominci a strutturarsi». I centri massaggi, quelli con i vetri tappezzati di immagini di coppie in relax e la scritta “aperto” in neon rosso su sfondo blu, dove le massaggiatrici esercitano arti più prossime all’eros che alla fisioterapia, a Milano sono diventati in breve 309: più della metà è cinese. Esci stanco ma pago, e vicino c’è sicuramente un bar cinese per rifocillarti dopo la fatica.

Sì, ma i soldi per comprarsi un bar? «Le banche si fidano di noi perché sanno che onoriamo i nostri impegni. E poi c’è il mutuo soccorso: se cento amici mettono mille euro l’uno, fanno 100 mila euro e tu puoi partire con la tua avventura imprenditoriale. Senza contare l’Expo, che può diventare un’occasione allettante di investimenti». Allettante a che condizioni? «La giunta Pisapia non ci ha forse capiti abbastanza. Ha aperto uno sportello per extracomunitari pretendendo che noi lo frequentassimo come se fossimo, perdoni, dei filippini o dei senegalesi ». E’ grave? «Il sindaco non è mai venuto a una nostra manifestazione, né organizzato un incontro con la nostra comunità, ha ospitato il Dalai Lama ad Assago, dove di solito facciamo le feste cinesi. Quest’anno siamo stati costretti a spostarci al PalaSesto, essendo che Assago era ormai contaminato». Per quanto grandi e potenti, siete ospiti, signor Ou. «Certamente. Ospiti particolari, però. Ho riunito i nostri giovani e ho detto loro: va bene laurearsi in Bocconi o al Politecnico, ma adesso è arrivato il momento di impegnarsi anche in politica. Vedrà che alle prossime amministrative la nostra comunità comincerà a dare segni di sé. D’altronde, amiamo l’Italia. Il nostro ideogramma per il vostro Paese è un sole e un cuore».

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