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I preti e il coronavirus. I funerali? Su whatsapp

Antonio Sanfrancesco Ansa - PIERO CRUCIATTI
Pubblicato il 20-03-2020

Da Bergamo, la provincia più colpita, a Lodi e Milano, viaggio tra i cappellani

Un funerale via WhatsApp non l’aveva mai celebrato, don Mario Carminati. È il parroco del Santissimo Redentore di Seriate, Bergamo, un centro di venticinquemila anime, falcidiato come tutta la Bergamasca dal coronavirus: «Nella mia parrocchia siamo a oltre settanta morti, l’anno scorso a fine marzo erano trentotto. Nove persone se ne sono andate solo nelle ultime 24 ore».

Don Mario è impegnato a organizzare la sepoltura di don Piero Paganessi, 79 anni, storico vicario, ricordato anche sul sito della parrocchia: «Le pompe funebri di tutta la provincia sono sature, sono arrivati i necrofori da Verona». I forni crematori, come le industrie, sono sempre accesi e non ce la fanno. Mercoledì scorso l’esercito ha dovuto portare le salme fuori regione in una processione lugubre che ha fatto piangere l’Italia intera. Le salme sono troppe e don Mario, come atto di pietas, ha aperto la chiesa di San Giuseppe per accoglierle temporaneamente: «Almeno diciamo una preghiera e sono già nella casa del Padre».

I preti lo sanno. Il coronavirus prosciuga speranze, aizza il terrore dei parenti costretti ad aspettare notizie dei loro congiunti barricati in casa. E condanna alla morte in solitudine. Per questo non lasciano le corsie d’ospedale, non abbandonano le parrocchie, vanno nelle case anche a rischio di contagiarsi per dare l’ultima benedizione, nei cimiteri per dare sepoltura ai morti. «Ieri sono andato a benedire la salma di Tarcisio», racconta don Mario, «una delle figlie è a Torino e non ha potuto partecipare. L’abbiamo chiamata su WhatsApp e ha partecipato alla preghiera con noi. È stato molto commovente».

La gente è rintanata in casa. Il silenzio è sferzato solo dalle sirene delle ambulanze. «Domenica scorsa ho lasciato la chiesa aperta per la preghiera personale, sono venute nove persone», spiega il parroco, «è una guerra, chi non è qui non può capire. Nessuno esce di casa, nessuno sventola bandiere alle finestre per dire che andrà tutto bene».

Don Mario ricorda Aristide, 84 anni, «stava benissimo ed è morto nel giro di pochi giorni. Era uno dei volontari della parrocchia, sempre ligio al dovere, tagliava l’erba del centro pastorale. La cosa che mi fa più male è che non abbiamo modo di salutarli e ringraziarli, sono persone che hanno dato tanto alla città e alla parrocchia»...

«QUEL MEDICO, AGNOSTICO, CHE MI HA CHIESTO UN CONFORTO SPIRITUALE»

E i medici e gli infermieri? Anche loro hanno bisogno di sostegno, di una preghiera di benedizione, di un conforto. Don Marco Gianola, 40 anni, è uno dei tre cappellani del Policlinico di Milano, di cui è parroco l’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, per un’antica tradizione che risale ai tempi di San Carlo Borromeo: «Io abito accanto all’ospedale. Avvicinarsi ai malati è difficile in questo momento ma ricevo tantissime visite da parte di medici e infermieri.

Mi cercano per dialogare, confrontarsi, sfogarsi. Hanno l’incubo di contagiare i familiari quanto tornano a casa», racconta don Gianola. Tra le tante storie che l’hanno colpito racconta quella di un’infermiera di 45 anni, madre di famiglia: «Si era allontanata da Dio per vicissitudini personali. In questi giorni, sopraffatta dal dolore, è entrata nella cappellina dell’ospedale e si è messa a piangere davanti alla Madonnina.

In questo momento di dolore, quando forse è più umano sentire Dio distante dalla nostra sofferenza, si è riavvicinata alla fede». (Articolo integrale su Famiglia Cristiana)

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