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Fra Alfonso, la bellezza dell'incontro con l'altro

Antonio Tarallo Pixabay
Pubblicato il 12-07-2018

Nel nostro convento in Camerun nessuno guarda certo alle religioni diverse

La dignità di un sorriso. La dignità nella povertà, che povertà sembra quasi non essere. E se sembra povertà forse è solo per il nostro deformato – ormai da tempo – occhio occidentale. Eh sì, perché i veri poveri siamo noi. Poveri d’umanità, di relazione, di incontro. Questa riflessione nasce così spontanea dopo aver ascoltato chi di Africa se ne intende un po’.

Alfonso Longobardi, anzi fra’ Alfonso Longobardi dell’Ordine dei Minimi, da tempo impegnato al servizio delle iniziative che l’Ordine di San Francesco di Paola, promuove per il Camerun, lì in quell’Africa nera, in quell’Africa che vive le condizioni che sappiamo. A pochi passi da Piazza Montecitorio, dove continua il sit-in di padre Alex Zanotelli, si trova il Convento dei Frati Minimi, legato alla famosa Basilica di Sant’Andrea delle Fratte. Per i molti, un solo nome: la Madonna del Miracolo. Sono pochi i metri che distanziano il Convento dalla piazza del potere romano.

Lì, in quel luogo, la voce degli ultimi anche oggi – siamo al terzo giorno del digiuno per gli immigrati promosso da Zanotelli – ha cercato di farsi eco, mentre turisti e curiosi sostano, domandano. Vedono lo striscione, la lampada della Pace a terra, e vicino il Vangelo, appoggiati su un foulard leggero. Leggero come il vento che ogni tanto dà respiro a chi ha deciso di manifestare l’indignazione contro i provvedimenti governativi per l’immigrazione. Frate Alfonso, si vede subito, è uomo di pace, anche lui. Una filosofia napoletana, potremmo dire, “bonaria” (nel senso del Bene, non facilona) ma profonda. Semplice insomma, che si intrecciata a una reale e concreta visione della vita, alla luce del Vangelo. Un po’ come ha cercato di esprimere nel suo libro “Gesù mangiava a scrocco” (Edizioni San Paolo), un Vangelo spiegato in parole semplici, non con “alte” esegesi, ma con parole che arrivano dritte al cuore. Così come dritte al cuore arrivano le sue parole sull’immigrazione.

Lui c’è stato in Camerun, lui ha vissuto quelle esperienze di vita in quei posti, e quello che emerge di più dalle sue riflessioni sull’attuale situazione dell’immigrazione è che manca “semplicemente” l’incontro. Un incontro che potrebbe abbattere i muri che si stanno ergendo. E i muri molte volte, ci dice padre Alfonso Longobardi, vengono accentuati da un sistema di informazione, da un sistema interattivo che falsifica la verità:

“Bisogna evidenziare un problema grosso: mettendoci dietro a un computer, dietro a uno schermo, rischiamo di non essere più capaci di vedere la vera realtà. Facciamo un mondo tutto nostro che potrebbe essere fasullo. Se ci si fossilizza ormai su stilemi dell’immigrato non possiamo certo uscire dalla situazione. Ormai ci stiamo abituando a pensare all’immigrato come qualcuno che porta via il lavoro all’italiano, che è terrorista…e via dicendo. Magari non ci focalizziamo sull’analizzare, ad esempio, che 250.000 italiani vanno via dall’Italia. E questi non sono forse immigrati, anche loro. Ora, perché sei italiano sei automaticamente bravo, sei automaticamente una risorsa per un altro Paese? Ecco noi ormai siamo abituati a vedere la realtà che i social ci propongono. E l’incontro? Dov’è l’incontro in tutto questo? Ecco che manca l’incontro, e l’incontro porta la conoscenza. Eppure sarebbe la cosa più semplice a questo mondo! Lo vediamo con i bambini. I bambini quando giocano, non hanno barriere, non colori…avviene l’incontro e basta”.

E, così, avviene, che questo discorso sulla realtà falsata, ci conduce ad altra questione: dividere in buono e cattivo. Padre Alfonso, per questa problematica, ha un tono categorico. Un tono che sembra scaturire dall’ascolto – nella quotidianità – di tante, tante persone incontrate fino ad oggi.

Persone, cittadini italiani e stranieri: “Qui c’è un problema di fondo. Se noi cominciamo a catalogare le persone come ‘diversi’ come ‘noi’, come ‘voi’ potremmo cadere facilmente in quello che viene definito dualismo cronico. Dividere il bene e il male, senza vedere la realtà così com’è realmente, senza vedere le svariate sfumature, facendola divenire solo una realtà bianca o nera. Questo, inesorabilmente, potrebbe far nascere facilmente nella mente delle persone un ‘ipotetico nemico’, proprio per colpa di quella divisione categorica fra ‘noi’ e ‘voi’. A furia di vedere il bene e il male, di entrare nell’ottica ‘il bene siamo noi, il male siete voi’ stiamo entrando sempre più nella fallace costruzione di un nemico. Chi la pensa come me allora diviene bene, chi non la pensa come me è male. E, per giunta, mi rompe anche le scatole! Diviene, allora così, quel ‘tu’ una minaccia. E ricordiamoci che parliamo di persone! Basterebbe guardare alla Storia. I frutti negativi delle grandi tragedie del Novecento sono nati perché, alla fine, qualcuno si è impuntato a parlare di un nemico, di un diverso. Nella fattispecie, ad esempio, erano gli ebrei. Abbiamo cominciato con delle battute, con delle sciocchezze…fino ad arrivare poi alla triste storia che sappiamo…non ci vuole niente per arrivare a qualcosa di simile. Certo, non siamo a questi livelli, ora, ma le premesse purtroppo ci sono. Questi toni politici che stiamo vivendo, sono troppo accesi. Stiamo vivendo un ‘noi’ identitario fasullo. Oggi si chiudono i porti nell’indifferenza, e questo fa paura! Per adesso, si alzano i muri, e domani…cosa può accadere?”

Non sappiamo cosa può accadere, no. Ancora non lo sappiamo. Anche se ironicamente padre Alfonso ha un desiderio strano. Irriverente, potremmo definirlo.
Ma un irriverenza che sa dello “scandalo evangelico”: “Certo, domani sarebbe bello finalmente vedere quel ministro con la barba che ultimamente mette molti filmati su facebook sapendo di tutto, e dando risposte a tutto…darmi finalmente la ricetta vera della pasta e fagioli”.

Capiamo che scherza, padre Alfonso, e prima di lasciarci a proposito del famoso incontro, ci lascia un ricordo che potrebbe farci riflettere non poco. E non riguarda la pasta e fagioli, ma qualcosa che ha grande sapore di umanità.

I suoi occhi brillano nel ricordo: “Nel nostro convento in Camerun, nella località di Nkol Nzama – che vuol dire “collina di Dio” – avviene questo: vengono da noi, così come i protestanti, così gli islamici…e sono i bambini che vengono a giocare…prendono l’acqua dal pozzo. Così da poter fare meno chilometri per andare a cercarla. Lì giocano, lì studiano, lì cantano, lì mangiano. Avviene un incontro. E loro, poi ci portano a conoscere le loro famiglie. E le famiglie divengono amiche di altre famiglie. E noi di loro. E così, in quell’incontro, nessuno guarda certo alle religioni diverse. Guardiamo tutti solo ai bambini che giocano”.

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