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De Masi: rinascere dalla crisi? Serve un modello di riferimento

Andrea Cova Ansa - PALAZZO CHIGI
Pubblicato il 22-06-2020

Viviamo in una società postindustriale sotto la spinta del progresso tecnologico

All’alba del secondo dopoguerra, l’Assemblea Costituente fu l’organo preposto alla redazione della Costituzione per la neonata Repubblica Italiana. C’era da ricostruire una nazione distrutta dalla guerra, minata da un regime che, nonostante tutto, era duro da estirpare. Diverse anime del Paese, dopo due anni di lavoro, dettero all’Italia la migliore Carta Costituzionale. Oggi per organizzare un piano di rinascita dopo la pandemia, che ha messo in ginocchio il mondo e non solo l’Italia, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha convocato nove giorni di Stati generali a Villa Pamphilj. 150 incontri a cui hanno partecipato diverse realtà italiane. In proposito abbiamo raggiunto telefonicamente il sociologo Domenico De Masi, che ci ha spiegato come sia necessario avere un modello da seguire per rifondare un Paese in crisi. Per ora, l’unico ad averlo è Papa Francesco.

Gli Stati generali convocati dal Governo si sono chiusi con la conferenza stampa sul giardino di Villa Pamphilj. Come ha visto la decisione di riunire questi Stati generali?
Sono un intellettuale e gli intellettuali hanno sempre auspicato che i politici, prima di prendere decisioni, ascoltassero il numero maggiore di competenze possibile. Lo speravo per esempio quando ci fu l’elezione della sindaca Raggi, che ebbe il 70% dei voti: prevedevo - sbagliando - che avrebbe riunito tutti i romani di buona volontà e di buone capacità per degli Stati generali che rilasciassero Roma. Per cui sono stato ben felice del fatto che Conte, prima di preparare un documento complessivo della ripresa dell’Italia da presentare in Europa, e quindi da far approvare, modificare o appoggiare dal Parlamento, avesse riconosciuto la difficoltà di un solo uomo - o un solo Governo - a prevedere cosa bisogna fare per l’Italia e abbia avuto l’umiltà di riunire questi Stati Generali. Pieno consenso con l’iniziativa di Conte.

Quindi aver deciso di ascoltare le parti sociali, o le famose “archistar”, lei lo valuta in maniera positiva…
Del tutto positiva!

Proviamo a fare la voce fuori dal coro. Non le sembra che il mondo della cultura sia stato dimenticato?
Si tratta di ciò che stavamo dicendo poc’anzi. Non so se ci sono intellettuali che avessero voluto essere convocati, ma non lo sono stati e se la sono presa. Io non sono stato convocato, eppure sono ben felice che colleghi con più competenza di me siano stati ascoltati. È la prima volta che si fa e, almeno ora, credo non sia il caso di lamentarsi.

Sono stati nove giorni con centocinquanta incontri in cui la parola d’ordine è stata “reinventare il Paese”. Come è possibile farlo secondo lei? Quale potrebbe essere il punto di partenza? Oltre le misure economiche, come ad esempio la riduzione dell’IVA.
Per un sociologo sarebbe stato ghiotto poter stare in un angolo ad ascoltare tutti gli interventi di questi nove giorni; si tratta di una cometa che passa nel cielo della sociologia, quindi sarebbe stato bellissimo - mi rendo conto impossibile - assistervi, perché si trattava di un campione rappresentativo del Paese. Se non vengono fuori idee da questo campione, significa che non ce ne sono e ci sta poco da fare. Qual è il problema dal mio punto di vista? È molto più generale: noi viviamo in una società postindustriale. Tutte le società precedenti, il Sacro Romano Impero, i grandi Paesi protestanti e cattolici del ‘600, i Paesi liberali dell’800, la Russia sovietica e i Paesi comunisti, tutte le società precedenti a questa nostra sono nate su un preesistente modello teorico. Il Sacro Romano Impero è nato sulle idee del Vangelo e dei Padri della Chiesa, gli Stati Protestanti dell’Europa Centrali si sono basati sulle idee di Lutero; gli Stati liberali su Smith e di Montesquieu, la Russia e i Paesi comunisti sulle idee di Marx e Engels. La nostra attuale società non ha un modello teorico di riferimento, è nata per germinazione spontanea sotto la spinta del progresso tecnologico, della globalizzazione, dei mass media e della scolarizzazione diffusa; sono elementi che hanno contribuito alla nostra società postindustriale, che però non ha un modello di riferimento.

Quando manca un modello a cui riferirsi non sappiamo cosa fare, come distinguere il bello dal brutto, il vero dal falso, il buono dal cattivo; non abbiamo elementi di discrimine e come dice Seneca: “nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove vuole andare.”
Anche noi non sappiamo dove vogliamo andare, non lo sa l’Europa, ed è per questo che Conte ha convocato questi Stati generali da cui si possono avere dei tasselli del mosaico che manca, non c’è un disegno complessivo del mosaico. Questo disegno non lo ha Conte, non lo ha Mattarella, Putin o Trump, la Merkel. L’unico capo di Stato che in questo momento ha un modello di riferimento è Papa Francesco, però si tratta di un modello che, naturalmente non tutti condividono: lo condividono i cattolici e alcuni, che come me, non sono credenti, ma apprezzano tale modello.

Per reinventare il Paese è necessario, quindi, trovare il nostro modello di riferimento?
Più che trovarlo, bisogna costruirlo perché non esiste. Occorre che ci faccia quello che hanno attuato gli Illuministi del ‘700: una trentina di giovani si misero a lavoro alcuni e elaborarono il modello illuminista. Bisogna imbastire qualcosa di post illuminista, ma questo richiede che gli intellettuali svolgessero questo compito, che fino ad ora non è stato fatto. I modelli di riferimento non sono creati dai politici ma dagli intellettuali; l’Italia è stata fatta da Cavour ma sulle idee di Mazzini, di Gioberti e Cattaneo.

Secondo lei, le tre vie principali emerse da questi incontri - modernizzare l’Italia, renderla più inclusiva e attuare una robusta transizione energetica - sono una base di partenza?
Sono solo dei tasselli. Quando si parla di “modernizzare”, che significa? Più treni, più alta velocità, il bonus di cinquecento euro alle donne che vogliono diventare manager. La riduzione dell’IVA, ad esempio, per rilanciare i consumi non ha senso. I consumi non hanno bisogno di essere rilanciati ma meglio distribuiti, attualmente non si consuma poco, anzi! Un italiano consuma quanto 52 indiani; se lei invita a casa sua una coppia di amici a cena è come se avesse invitato 104 indiani. Questo ci dà la misura di quanto consumiamo, ma alcuni consumano più e altri molto meno, ed ecco la necessità di spalmare questi consumi.

Rilanciare i consumi significa rilanciare il consumismo ancora una volta. Vogliamo un’Italia più consumista o meno consumista? Io la vorrei più uguale, vorrei che si riducano i consumi inutili. Per esempio, il telelavoro aiuterebbe in questa riduzione: lavorando da casa si risparmiano soldi per i tragitti, si inquina di meno e così via. Se rilanciamo le aziende automobilistiche, come ha previsto Conte, di cosa stiamo parlando? Per questo dico che non c’è un modello di consumi da implementare e uno da ridurre. In questo periodo si crede che sia necessario consumare di più, anche se aumenta l’utilizzo del napalm o delle armi è indifferente, ciò che conta è consumare in maggiore quantità. Le faccio un esempio. Siamo gli ottavi esportatori di armi nel mondo, vogliamo ridurre il consumo delle armi? Vedrà che questo non ci sarà. Nel decreto del 4 marzo in cui erano elencate tutte le aziende che avrebbero dovuto chiudere immediatamente, quelle di armi non erano in elenco. Infatti, la produzione di armi nel bresciano non si è mai fermata, contagiando un numero sempre maggiore di operai e lavoratori che poi sono morti. Questo nessuno lo ha detto, non ho mai sentito una denuncia precisa. Mi risulta che alcuni imprenditori di armi nel bresciano, finanziano anche la costruzione di ospedali in Africa, pensi che follia totale!

Parliamo un attimo di telelavoro sollevando un dubbio. Non crede che la vita privata rischi di essere inglobata troppo da quella lavorativa?
Lei mi contatta da una rivista francescana, quindi dovrebbe avere il timore opposto.

Infatti, la nostra è una domanda provocatoria...
L’industria ha disgregato la famiglia. La società industriale, nata nella metà del ‘700 e che per nostra fortuna inizia a declinare duecento anni dopo, ha distrutto la famiglia. Fino a quel momento l’artigiano, il medico, il notaio lavoravano in casa. È stata l’industria a separare le cose: la casa è dove si dorme e tutto il resto della giornata, quindi la parte sostanziosa, si passa lontano da casa e dai familiari. Il telelavoro ricompone questa situazione. Non è possibile che le città siano vuote metà di giorno e metà di notte, di giorno quella in cui dormiamo e di notte quella in cui lavoriamo, con un aumento del costo degli immobili fuori controllo. È folle che un genitore sia ontano tutto il giorno dai figli e li veda solo la sera quando è sfinito dal lavoro.

Occorre ricomporre la vita col lavoro e il telelavoro è la strada migliore per farlo e spero che voi diventiate dei grandi fan dello smart working.

Era il 1993 quando scrissi per la prima volta di questo tema, mi è sempre parso un grande recupero della vita personale e familiare rispetto alla disgregazione provocata dalla società industriale.

L’Italia è pronta al telelavoro?
Sul piano informale è prontissima. Tutti noi telelavoriamo, in questo momento io e lei stiamo telelavorando, e lei dopo di me telelavorerà con altre persone. Sugli aerei, sui treni tutti fanno lavoro, ma non si deve dire. Le aziende vogliono che si faccia ma che non si dica, perché non se ne hanno intenzione di assumersi le responsabilità. L’Italia è il Paese dove si fa più telelavoro informale e meno formale.

Cominciando a tirare le somme, come valuta l’operato di questo Governo?
La mia valutazione è molto positiva. Sono sufficientemente razionale da fare il paragone: se non ci fosse Conte, in questo momento ci sarebbe Salvini. Siccome la politica non è l’arte dell’ottimo, ma del meno peggio, Conte è meno peggio di Salvini, ma anche una persona di grande qualità. In due anni è riuscito a diventare uno statista.

Per settembre è stato annunciato il Recovery plan. Cosa dobbiamo aspettarci? Possiamo attendere fino a settembre in questa situazione di criticità?
Può o non può, deve aspettare! Ci è capitata una disgrazia e ci stiamo comportando, psicologicamente, come se il Coronavirus non fosse avvenuto; siamo come un contadino i cui campi sono stati martoriati dalla grandine. Che alternativa abbiamo se non aspettare? Serve pazienza e rimboccarsi le maniche, ma queste maniche non se le rimbocca nessuno, tutti aspettano i sussidi ed è inaudito. Nel dopoguerra, quando tutto era distrutto e ci furono oltre 80 milioni di morti, se non si fossero rimboccati le maniche, immaginate cosa sarebbe accaduto. Oggi invece si chiedono solo sussidi al Governo e all’Europa, come se Governo ed Europa, dopo la pandemia, fossero più ricchi di prima. Sono molto più poveri anche i governi e l’Unione europea, perché in questo periodo non si è prodotto e non si sono pagate le tasse.
Sento dire che i pagamenti della cassa integrazione sono in ritardo, ma in ritardo rispetto a cosa? Ai tempi normali? I tempi normali sono molto più lunghi. Prima la cassa integrazione veniva pagata con cinque mesi di ritardo, ora con due mesi.

Quindi, tra gli elementi necessari a far rinascere il Paese ci sta anche un cambio di mentalità.
Per cambiare mentalità è comunque necessario un modello da seguire. Come ho detto all’inizio di questa intervista, gli unici che hanno un riferimento da seguire sono coloro che seguono le idee di Papa Francesco. Il pontefice è stato preciso nel dare un modello: quale tipo di economia, quale di società, che tipo di rapporti. Si tratta di un modello completo, che si può condividere o meno. Chi, come me lo condivide solo in parte, non ne ha uno alternativo e quindi siamo sempre al punto di partenza.

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