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Con Camus e Monod per dare senso alla fine

Roberto Righetto Unsplash
Pubblicato il 01-03-2021

Un dialogo postumo per indagare il significato della vita partendo dall'ultimità della morte

La finitudine, termine noto alla storia del pensiero e della teologia, fu rilanciato 25 anni fa da Salvatore Natoli: presentando il 29 gennaio 1996 a Milano un volume del cardinal Martini, il filosofo sostenne che la condizione di essere finito è un dato che accomuna credenti e non credenti. Il cristianesimo lega la salvezza dell' uomo alla consapevolezza della propria finitudine e l' etica laica - che lui definiva «neopagana », legandosi agli antichi greci - è a sua volta centrata sulla naturalità del morire. Ma se il senso cristiano si basa sull' artificialità della morte, conseguenza del peccato, e sull' annuncio della resurrezione che vince la grande nemica, per il laico il peso della finitudine va di pari passo con la capacità di assunzione della propria morte. Dopo la modernità, e ancor più nella postmodernità, sono possibili entrambe le opzioni: «Nella grande etica neopagana si può essere ugualmente buoni anche senza regno dei cieli. A patto però che i deliri di onnipotenza che hanno caratterizzato la modernità siano definitivamente caduti alle nostre spalle». Per Natoli, che da allora ha continuato la sua critica serrata al cristianesimo per aver ridotto l' annuncio al puro esercizio della carità senza più predicare la salvezza dopo la morte, ma che al contempo è ben consapevole che «la partita col cristianesimo è tutt' altro che chiusa», bisogna dunque ripartire dai Greci, rinunciando al sogno di un mondo liberato dal dolore e dalla morte. La sfida, molto più modesta, è quella di limitare il male nel mondo e tenere in custodia la Terra.

Da Lucrezio ad Albert Camus, il senso del limite è un concetto base della storia del pensiero non credente ed è anche un punto di partenza oggi possibile per un dialogo, se non una collaborazione vera e propria, fra chi ha fede e chi non ce l' ha. Senso del limite che ci protegge dall' hybris e che si accompagna al senso di rivolta dinanzi al male, ai tanti mali che incombono sull' umanità. Rileggendo oggi un romanzo purtroppo attualissimo come La peste, non si può non restare impressionati dalla scena terribile (e molto do- stoevskijana) del bambino agonizzante. Lo scrittore francese pone a confronto due protagonisti, il dottor Rieux e padre Paneloux. Quest' ultimo, nella predica iniziale del romanzo, parla della peste come del castigo di Dio che invita gli uomini a ravvedersi, mentre il primo non ha risposte, ma la sua posizione morale lo spinge ad agire: «Quando si vedono la miseria e il dolore che porta, bisogna essere pazzi, ciechi o vili per rassegnarsi alla peste». Rieux riflette chiaramente il pensiero dell' autore, ma in realtà la contrapposizione fra credenti e non credenti di fronte all' epidemia è molto meno forte di quanto appare. Lo stesso padre Paneloux, nella seconda omelia, cambia completamente registro. Anch' egli si è mobilitato in prima persona per alleviare le sofferenze e il continuo contatto con la morte finisce per influire sul suo pensiero teologico. Il dolore, dice ora, è un mistero e lo si può solo accettare. Per Camus dunque atei e cristiani possono ritrovarsi per difendere l' uomo dal male che lo colpisce.

Le riflessioni di Natoli e Camus tornano in mente leggendo Finitudine, il romanzo filosofico di Telmo Pievani da poco uscito in libreria per i tipi di Raffaello Cortina Editore (pagine 284, euro 16). Una intensa e salutare provocazione che torna a porre l' antica domanda: come trovare un senso all' esistenza anche se non si crede in una religione o nell' aldilà? (domanda peraltro cui anche il credente è tutt' altro che indifferente). L' autore, che insegna Filosofia delle scienze biologiche all' università di Padova, s' inventa un dialogo fra Albert Camus e l' amico scienziato Jacques Monod, immaginando che lo scrittore non sia rimasto ucciso nell' incidente in cui morì nel gennaio 1960: i due, entrambi premiati dal Nobel, si ritrovano in ospedale e insieme scrivono un libro, dai toni talora esageratamente scientisti, in cui disegnano un progetto di ribellione e solidarietà. Un po' come avevano fatto durante la seconda guerra mondiale, quando si erano attivamente impegnati nella Resistenza al nazifascismo rischiando anche la vita, e come continuavano a fare in quegli anni aiutando i dissidenti al regime sovietico.

La scienza, si diceva, e tutte le sue più recenti acquisizioni rispetto al futuro dell' universo fanno da sottofondo al libro, a partire dal dato inoppugnabile che la vita sul nostro pianeta finirà, fra qualche miliardo di anni, «Crollerà la macchina del mondo», scrive Pievani all' inizio del romanzo, che diventa un excursus laico nel tentativo di trovare un significato all' azione umana in un mondo dominato dal caso e dalla necessità, per riprendere due concetti basilari di Monod. Democrito e Lucrezio soprattutto sono onnipresenti, in una visione materialista della vita, dominata dall' assurdo a cui però non ci si vuole rassegnare. Entra così in gioco un terzo elemento, la libertà. Si completa «la nostra triade », dice Camus all' amico scienziato, ripetendo più avanti la convinzioneche la scienza da sola non basta a spiegare la complessità dell' esistenza umana: «Mi rifiuto di pensare che il nostro corpo sia soltanto un robot o un automa che obbedisce ai suoi benedetti geni, un veicolo di trasmissione dell' informazione genetica».

Il Sisifo postmoderno non si accontenta di contemplare le rovine e di assistere impotente alle sofferenze altrui, ma interviene con coraggio per farvi fronte. «Avere coscienza della finitudine ha un grande valore umanistico, perché ci dona non solo il senso della nostra appartenenza alla natura, ma anche la compassione per tutti gli altri che, come noi, sono mortali e in cerca di un senso», annota Pievani per il quale «l' atto di rivolta - contro i mali del mondo, contro le oppressioni e le ingiustizie, contro la finitudine stessa - è un seme di solidarietà umana, che travalica i singoli e diventa tessitura collettiva». Affascinato razionalmente da Monod e dalla sua posizione areligiosa, Pievani mostra quasi di sentirsi col cuore più vicino a Camus, che non smette mai di interrogarsi sullo scandalo della sofferenza, suggestionato da sant' Agostino, al quale aveva dedicato la tesi di laurea, per lui «il solo grande spirito cristiano che abbia guardato in faccia il problema del male». Parlando davanti a un pubblico di domenicani pochi anni prima di morire, aveva dichiarato: «Sono il vostro Agostino prima della conversione. Mi dibatto col problema del male, e non ne esco». Nei suoi scritti l' unica via di scampo è formare una cordata per rendere meno orribile l' inferno in cui viviamo. E questa pare anche oggi la chance di una cooperazione possibile fra chi crede e chi non crede. (Avvenire)

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