religione

Segni delle stimmate

Elvio Lunghi Archivio fotografico Sacro Convento
Pubblicato il 31-03-2021

Bonaventura riferisce un episodio che ha per protagonista Gregorio IX

Tornato a casa nella chiesa di San Giorgio, dove aveva appreso le lettere nei tempi dell’infanzia, e avvenuta la cerimonia di canonizzazione alla presenza del Signor Papa, ha termine la vita di Francesco. Non finisce qui la Legenda maior di san Bonaventura, prosegue col racconto del trasporto del suo corpo prezioso in una basilica costruita in suo onore e dei primi miracoli: “i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti resuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella (Lc 7, 22). Ma non è qui che si chiude la terzina della seconda campata. 

Bonaventura va oltre, descrive la potenza meravigliosa delle stimmate ed elenca alcuni esempi d’incredulità di fronte alla novità del miracolo, dopo che i frati avevano dato corso a una intensa attività omiletica o al diffonderne la notizia avvalendosi d’icone che lo ritraevano con le mani i piedi e il costato segnati dalle stimmate. Erano in molti a dubitare della loro veridicità – è il titolo di un libro famoso di Chiara Frugoni: Francesco e l’invenzione delle stimmate – quasi fossero tutti san Tommaso alla notizia della resurrezione di Cristo: “Se non vedo nelle sue mani, se non metto il mio dito”. 

Così Bonaventura racconta l’episodio di un frate predicatore per professione, che dubita delle proprie parole finché non gli appare in sogno Francesco nell’aspetto di una statua di argilla, “con i piedi sporchi di fango”. Prosegue col racconto di una signora romana che teneva una immagine di san Francesco in casa e come un giorno vide sparire e riapparire i segni che vi erano dipinti. O anche di un chierico della città di Potenza, che sostando in preghiera davanti a un quadro con san Francesco stigmatizzato, provò nelle sue carni lo stesso dolore. Ma soprattutto Bonaventura riferisce un episodio che ha per protagonista Gregorio IX, al quale Francesco aveva profetizzato l’elezione a Pontefice e come una volta eletto dubitasse della ferita al costato. Una notte Francesco gli apparve in sogno, lo rimproverò dei suoi dubbi, gli chiese una fiala e vi raccolse il sangue vivo che sgorgava dalla ferita. Da allora il Papa s’infiammò di devozione e rimproverò aspramente chiunque volesse misconoscere la realtà delle stimmate. 

La più antica pala agiografica ritraente san Francesco della quale si abbia notizia era un tempo in San Miniato al Tedesco in Toscana e era datata 1228, praticamente contemporanea alla canonizzazione. L’uso di queste immagini devozionali ebbe una tale diffusione che nel 1237 i frati arrivarono a sollecitare Gregorio IX perché censurasse il comportamento del vescovo di una città boema, che aveva proibito di dipingere l’immagine di san Francesco con le stimmate con la motivazione che soltanto il Figlio di Dio era stato crocifisso. Gregorio IX sostenne al contrario come non ci fosse nulla di temerario nel testimoniare con la pittura un simile miracolo e, grazie alla sua approvazione e a quella del successore Alessandro IV, i francescani faranno ampio uso delle immagini come strumento di propaganda, introducendo una novità che diventerà la norma nei secoli a venire. 

Sotto la scena nella chiesa di Assisi si legge la scritta “Poiché il signor Papa Gregorio aveva forti dubbi sulla piaga della ferita laterale, il beato Francesco gli disse in sogno: Dammi una fiala vuota. E avendogliela data, fu vista riempirsi del sangue del costato”. È quanto rappresenta affresco, che ritrae una stanza al cui interno c’è un Pontefice che dorme sdraiato sul fianco sopra le coperte di un letto, vestito di una tunica bianca e di un manto rosso, e con il capo coperto da una tiara. Nel sonno il Papa solleva una mano per prendere la fiala tenuta da Francesco, il quale con l’altra mano gli indica la ferita del fianco. Il sonno è vegliato da quattro cubicolari seduti in primo piano: uno che dorme appoggiato al gradino del letto, due che parlano, il quarto che sgrana un Paternoster. Quest’ultimo ha una croce patente bianca sul mantello nero che lo identifica per un cavaliere dell’ordine di San Giovanni. L’alcova ha un soffitto a travature lignee decorato da cassettoni con fioroni, il baldacchino di stoffa sollevato con una carrucola al soffitto e tenuto aperto da corde, una lampada appesa alla sua corda, le pareti ornate da piastrelle e rivestite con un tendaggio dorato, la cassa del letto e quella del gradino rivestite da coperte dai differenti colori, il pavimento piastrellato da mattonelle con decorazioni geometriche. L’interno della camera papale è talmente accurato da sembrare l'illustrazione di una rivista di arredamento del tempo. 

Tutto è dipinto con notevole accuratezza e dimostra una bellezza nuova che non ricorda affatto le corporature tozze in uso nelle prime storie del ciclo, e soprattutto le architetture che lì sembrano scatole componibili, qui edifici reali. Architetture e personaggi sono diventati slanciati ed eleganti, rivelando da una parte lo studio del gotico d’oltralpe e dall’altra dell’arte romana di età adrianea. Resta il problema chi sia questo pittore “gotico”. Si è parlato di un pittore fiorentino identico al ‘Maestro della Santa Cecilia’, o di un aiuto umbro di Giotto, il ‘Maestro del Crocifisso di Montefalco’, o anche di un pittore senese, forse Pietro Lorenzetti, o forse anche dello stesso Giotto, ma comunque diverso dagli autori delle storie precedenti. Quando la ricerca della bellezza s’intreccia alle immagini di meditazione, laudato si’ mi’ Signore!

 

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