Le funzioni dei cardinali
Essi devono coadiuvare il vescovo di Roma, successore di Pietro, nel governo della Chiesa
Le funzioni del cardinalato e il suo costituirsi come vero e proprio Collegio, chiamato a coadiuvare il Vescovo di Roma nell’esercizio del suo governo sulla Chiesa universale, costituiscono l’esito di un processo di sviluppo della comunità ecclesiale che nei secoli XI-XII fu oggetto (e soggetto!) di una profonda opera di riforma. Fu in quegli anni, grosso modo tra il 1046 e il 1130, che anche l’esercizio del ministero petrino mutò sensibilmente incidendo sulla fisionomia del corpo ecclesiale.
Alla metà del secolo XI i vescovi di Roma avvertirono sempre più loro compito primario quello della riforma dei costumi del clero e della comunità ecclesiale. Leone IX (1049-1054) radunò attorno a sé validi collaboratori (tra questi Umberto, poi cardinale vescovo di Silva Candida, e Ildebrando, poi cardinale, quindi papa Gregorio VII). La riforma si concentrò soprattutto nella lotta alla simonia (acquisto di cariche ecclesiastiche) e al nicolaismo (concubinato). I teologi più radicali, in primo luogo Umberto di Silva Candida nel suo Adversus simoniacos, sostennero addirittura la nullità delle ordinazioni di quanti erano stati eletti in modo simoniaco.
Dopo la morte dell’imperatore Enrico III (1056), i riformatori si resero conto che, ai fini del perseguimento della riforma, era necessario liberare la cattedra di Pietro da ogni mira e pressione laicale, fosse questa di parte imperiale o delle grandi famiglie romane. Alla morte di Vittore II (1057), stante una situazione d’emergenza, i riformatori elessero subito Federico di Lorena (Stefano IX) senza neppure consultare la casa imperiale: in seguito a ciò Ildebrando dovette recarsi in Germania, forse per giustificare a corte l’insolita procedura osservata nell’elezione.
Stefano IX, prevedendo imminente la sua morte, fece giurare clero e popolo che non avrebbero proceduto all’elezione finché Ildebrando non fosse ritornato dalla Germania, ma la famiglia dei Tuscolani, con un colpo di mano, elesse Giovanni, vescovo di Velletri (Benedetto X): i riformatori non consentirono all’elezione e non appena Ildebrando giunse a Roma si accordarono sul nome di Gerardo, vescovo di Firenze, originario della Borgogna, che prese il nome di Niccolò II, intronizzato il 24 gennaio 1059.
Con l’elezione di quest’ultimo era maturato un fatto nuovo: cinque cardinali vescovi, con pochi altri riformatori e l’assenso del sovrano, avevano eletto fuori Roma il nuovo papa. Nel sinodo romano del 1059 fu emanato il decreto sull’elezione pontificia, che d’allora in poi si sarebbe progressivamente concentrata nelle mani dei soli cardinali. Il decreto prevedeva tre fasi: una prima consultazione dei cardinali vescovi; venivano poi aggregati alla consultazione gli altri cardinali; infine, l’elezione veniva sancita con l’approvazione del clero e del popolo romano. Nell’eventualità che i cardinali vescovi fossero stati limitati nella loro libertà dai romani, avrebbero potuto procedere all’elezione anche fuori Roma: in definitiva, erano essi, i cardinali vescovi, a garantire la sussistenza della Chiesa romana; dov’essi erano, ivi era la Chiesa.
In quel decennio centrale i cardinali videro così progressivamente arricchito il loro ruolo e le loro funzioni di principali collaboratori del Papa, a sostegno della sua opera di riforma. Tale è ancor oggi – sostanzialmente – la loro funzione: essi devono coadiuvare il vescovo di Roma, successore di Pietro, nel governo della Chiesa universale, sostenerlo nel suo sforzo perché la Sposa di Cristo, sempre più pura e senza macchia, possa risplendere di bellezza. Devono farlo con la purezza della loro dottrina e – soprattutto – con una vita il più possibile santa, disposti anche a versare il sangue per la Chiesa. Tale è il compito calato sulle spalle del p. Mauro, che lo espone a un peso non lieve e a molteplici difficoltà e tentazioni; compito che potrebbe anche far tremare le vene ai polsi, se non avessimo però la parola dell’Apostolo: questi ci assicura infatti che “Dio è degno di fede” e non permette che siamo schiacciati oltre le nostre forze (1Cor 10,13).
di monsignor Felice Accrocca, arcivescovo di Benevento
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