religione

Il Sole 24 Ore, Ravasi: alla ricerca del giusto pensiero

Gianfranco Ravasi Il Sole 24 Ore
Pubblicato il 28-06-2020

Il latinista Ivano Dionigi invita ad affrontare il nostro tempo sollevando lo sguardo verso le riflessioni pronunciate dai grandi del passato e del presente

Ivano Dionigi, grande studioso della classicità, pur non staccando i piedi dalle strade polverose dell’esistenza quotidiana, stimola il suo lettore a guardare oltre e altro, filtrando spesso la sua voce attraverso le parole più alte, pronunciate mirabilmente dai grandi del passato: le loro citazioni intarsiano le righe che egli scrive per ogni breve meditazione. Conferma, così, la sua qualità di “professore” che – come spiega – è un vocabolo che deriva da profiteri, “professare”, così da generare un interrogativo autobiografico piuttosto provocatorio: «Noi professori cosa professiamo? Siamo all’altezza del nostro nome?». Spesso egli lascia spazio alla domanda che, quando è seria, artiglia la coscienza, come suggerisce lo stesso segno grafico a rampino, ben diverso dall’enfatico, verticale e lineare esclamativo.

L’interrogazione che serpeggia in tutte le pagine del suo libro è radicale, destinata a scandagliare l’abisso dell’Io: è l’agostiniano Tu quis es?, che si risolve nell’invito: «Torna in te stesso, la verità abita dentro l’uomo». In un tempo di trionfo estremo della tecnologia protesa sul fenomeno si assegna, quindi, il primato all’interiorità, al fondamento, alla coscienza, memori della confessione dell’amato Seneca: «Io indago prima me stesso, poi questo universo».

Per questo idealmente dovremmo dire che la raccolta dei vari pensieri occupa solo la metà del libro. In un certo senso bisognerebbe aggiungere in bianco altrettante pagine, perché – come Dionigi afferma, ricorrendo allo scrittore Joseph Conrad – «si scrive soltanto una metà del libro, dell’altra metà si deve occupare il lettore». L’eco che le sue parole generano deve, perciò, trasformarsi in nuove emozioni, pensieri, persino in “ustioni”, per usare una sua forte espressione, che facciano vibrare mente, anima e corpo.

È questa la vera “sapienza” che, nella sua radice latina di sàpere, significa innanzitutto «avere sapore, gustare». Anche gli equivalenti inglese, wisdom, e tedesco, Weisheit, rimandano a un’esperienza globale, fisica e spirituale perché fioriscono dalla radice indoeuropea wid- (si pensi ai testi sacri induisti Veda) che ha prodotto il nostro “vedere” e in greco anche il “sapere” (oida). È un coinvolgimento intellettivo, volitivo, affettivo ed effettivo. Questa nostra deviazione lungo il sentiero dell’etimologia vuole individuare, in realtà, una strada maestra battuta da Dionigi, quella della celebrazione della parola, oggi spesso violata, umiliata, sconciata, soprattutto lungo i viali dell'infosfera. Egli, invece, ne esalta la grandezza paradossale che è fatta di onnipotenza e di fragilità. Formidabile è il suo rimando a Canetti: «Se fossi davvero uno scrittore, dovrei essere capace di impedire la guerra… Alla situazione che ha poi reso la guerra davvero inevitabile si è arrivati per mezzo di parole, parole su parole usate a sproposito. Se così grande è il potere delle parole, perché esse non dovrebbero essere in grado di impedire la guerra?» [...] Certo non si può ignorare che mai come oggi dovrebbe essere praticata un'ecologia anche del linguaggio, un’igiene del parlare e dello scrivere, consapevoli come siamo che i demagoghi ingaggiano ogni giorno «una battaglia di parole». E non, certo, per dissezionare bene e male, sceverare grano e zizzania, distinguere vero e falso. Anzi, si assiste all’ «eclissi di parole che ritenevamo uniche, inalterabili e insostituibili, che non riusciamo più a pronunciare come abbiamo fatto per secoli. Si pensi alle parole “padre” e “madre”: prima le certificava il sangue, poi le garantiva la legge, ora sia il sangue sia la legge sono soppiantati dalla provetta della tecnologia». Ora, perché la parola possa essere epifanica, sapiente e pura, è necessario che sia generata dal grembo dell’intelligenza che ne certifica e convalida il contenuto. L'anoressia del pensiero contemporaneo paradossalmente produce un’ipertrofia della chiacchiera che è la parola degenerata.   Bisogna ritrovare il rigore della ragione, esercitare con impegno l’intus legere, che è la base etimologica del termine intelligere, cioè l’approfondimento che esorcizza la superficialità e la banalità. È, questo, un altro caposaldo delle riflessioni di Dionigi, il cui motto ideale è «Osa sapere», nella consapevolezza che – come dice il vocabolo considerare – la comprensione è uno «stare insieme con (cum) le stelle (sidera)». È, quindi, un’ascesa verso l’alto, l’eterno e l’infinito, è un meditare che conduce fino all’escatologia, cioè al senso ultimo dell’essere e dell’esistere. Se si vuole ricorrere a una metafora per descrivere l’avventura dell’intelligenza, bisognerebbe assumere quella platonico-agostiniana della triplice navigazione evocata in queste pagine. Alla prima traversata guidata dai venti e, quindi, dalla scienza, deve subentrare un percorso in cui l’imbarcazione è sorretta dai remi, cioè dalle energie della persona che hanno il loro apice proprio nel pensiero e, quindi, nella filosofia. Infine, a sostenerci nella navigazione ultima e suprema è la stella della fede che ha come imbarcazione «il legno della croce di Cristo capace di traghettarci attraverso il mare di questo secolo» nell’eterno divino, come suggeriva sant’Agostino.

In questo procedere a più livelli noi non siamo i primi ad avanzare, altri ci hanno preceduto. È così che il nostro autore introduce un altro tema a lui caro, la “tradizione”, che è efficacemente rappresentata in un gioco lessicale suggestivo e trasparente, retto dalla legge dell’inclusivo, armonico e coerente et et, contro l’esclusivo, aggressivo e separante aut aut. Detto in altro modo, il notum dei padri e dei maestri deve intrecciarsi con il novum dei figli e dei discepoli. Il classico, che non è una fredda eredità cristallizzata ma un seme fertile («è ciò che ancora ha da essere«, come ammoniva Osip Mandel’štam), deve coniugarsi con la modernità. È un esercizio “simbolico” che Ivano Dionigi in un passo emblematico della sua raccolta presenta attraverso due voci inattese, tra loro distanti, eppure concordi, Petrarca e Steve Jobs, il fondatore di Apple.

È solo in questa luce che si possono accostare due triadi scandite dalla vocale i, senza che la prima prevarichi sulla seconda, come purtroppo spesso accade: da un lato, inglese, Internet, impresa; dall’altro, intelligere, interrogare, invenire. Due trilogie non sovrapponibili ma necessarie secondo diverse gradazioni o finalità, funzionale la prima, essenziale la seconda. Solo così si riesce a vivere in pienezza il proprio tempo, «la cosa più preziosa di tutte», come affermava Seneca. [...]. Da Il Sole 24 Ore del 28 giugno 2020

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