religione

Carlo Acutis beato: 'un influencer positivo per tanti giovani'

SALVATORE CERNUZIO Agenzia Fotogramma
Pubblicato il 17-06-2020

Antonia Salzano racconta la santità di suo figlio, morto a 15 anni per una leucemia, che sarà beatificato il 10 ottobre ad Assisi

Il prossimo 10 ottobre sarà festa ad Assisi per la beatificazione di Carlo Acutis, il giovane brianzolo morto quindicenne per una leucemia fulminante, la cui fama di santità è diffusa in tutto il mondo. Abilissimo con le nuove tecnologie tanto da essere già proclamato “patrono del web”, il Papa ha inserito Acutis nell’elenco dei giovani modello di santità nell’esortazione Christus Vivit. Carlo, però, era anzitutto «un ragazzo normale»: a dirlo è la persona che meglio lo ha conosciuto, la mamma Antonia Salzano. Donna solare e piena di vita, impegnata a girare il mondo per portare la mostra sui Miracoli Eucaristici ideata da Carlo, al telefono con Vatican Insider rivela particolari inediti e quasi commoventi della vita accanto a questo figlio così speciale. Non un santino, ma un ragazzo buono che può essere d’esempio per tanti giovani di oggi - non solo credenti - immersi in modelli demenziali di vita e in social network che alimentano il «mito dell’io».

Insomma in casa Acutis dal 10 ottobre ci sarà un beato…
«La prima parola che mi viene in mente è finalmente! Anche se, a dir la verità, l’iter per la beatificazione è stato molto veloce. Me l’aspettavo perché Carlo di miracoli in questi anni ne ha fatti moltissimi e ha avvicinato alla fede tanti ragazzi e adulti. Ci sono persone che fanno riferimento a lui in ogni parte del mondo, gruppi dedicati in India, Vietnam, Corea, Egitto. Pure la mostra sui Miracoli Eucaristici, alla quale abbiamo dato una mano noi genitori, ha portato molto frutto. Carlo sarebbe contento, passava le ore a dedicarsi a queste cose soprattutto tramite internet. Era bravissimo».

Si parla infatti di Carlo Acutis “patrono del web”.
«Sono sincera e non lo dico da mamma: era davvero un genio con internet. Creava algoritmi, statistiche, aveva poco più di dieci anni e leggeva testi di ingegneria informatica che andavamo a comprare alla libreria del Politecnico di Milano. Riusciva a creare programmi che solo chi ha fatto studi specialistici era in grado di fare. Questa capacità informatica era innata».

Come anche la fede. Carlo ha chiesto a voi genitori di fare la Comunione che non aveva neanche cinque anni. Da dove è nata questa esigenza?
«Misteri dell’infinito… Io, lo dico sempre, non ero neanche tanto brava come mamma da questo punto di vista. Ho fatto un percorso e ho scoperto Dio, ma prima ero entrata in Chiesa solo per comunione, cresima e matrimonio. Mio marito era più devoto ma, diciamo, la sua era una fede tiepida. Carlo, invece, sin da piccolo ha dimostrato una naturale propensione, ci chiedeva di entrare nelle chiese e salutare Gesù, leggeva le vite dei santi. Dopo aver fatto la comunione a 7 anni, ha iniziato ad andare tutti i giorni a messa, a recitare il rosario, le novene alla Madonna e soprattutto a fare l’Adorazione eucaristica. In un certo senso era un mistico: non che avesse visioni o cose del genere, ma una vita interiore fortissima. Sentiva una unione profonda con l’Eucarestia, mi diceva: “Mamma, com’è possibile che ci sono file chilometriche per i concerti o le partite e davanti al tabernacolo no?”. Temeva che la gente non capisse il valore di avere Dio in mezzo a noi. Ripeteva che siamo più fortunati noi rispetto alla gente che ha vissuto all’epoca di Gesù che doveva trovare il tempo e lo spazio per vederlo. Noi invece lo incontriamo solo andando a messa nella chiesa vicino casa».

Il Papa ha citato suo figlio nella esortazione Christus Vivit come modello di santità giovanile. Sicuramente Carlo è d’esempio per tanti cattolici, ma per un ragazzo che non ha la più pallida idea di cosa sia la fede non è forse un modello lontano o comunque difficile da raggiungere?
«Credo che Carlo sia invece un esempio positivo a prescindere da ogni aspetto religioso. Perché era un ragazzo normale, con una vita reale. Certamente non si sentiva un santo, anzi era ben cosciente dei suoi limiti: “Non io, ma Dio”, ripeteva. Gli avevano regalato un diario di Harry Potter in cui si metteva i voti: come mi comporto come alunno, come figlio… Era goloso e ha cercato di essere temperante con il cibo; in classe era un po’ esuberante, chiacchierone, e ha chiesto a Dio la grazia di diventare bravo. Gli piacevano anche i videogiochi, ma si era imposto di giocarci un’ora a settimana perché era consapevole che questi mezzi possono diventare tiranni. Aveva letto di coetanei finiti in clinica per dipendenza… Carlo sapeva che nella vita si può progredire sempre e che la battaglia principale è con sé stessi, per questo diceva che la santità non è un processo di aggiunta, ma di sottrazione: meno io per lasciare spazio a Dio. Diciamo che ai ragazzi di oggi mostra la via giusta da seguire».

Possiamo definirlo una sorta di influencer…
«Non mi piace questa parola, ma, sì, Carlo è un po’ un influencer di Dio. Nel senso che ha aiutato e aiuta gli altri a capire che la felicità si trova mettendo Dio al primo posto, nelle grandi e piccole cose come anche una partita di calcio. È importante questo in una società quasi demenziale come quella odierna. I giovani sono immersi nei social, in questi mezzi web spesso veicoli di pornografia o bullismo. Crescono con il mito dell’io, si sentono vivi in base alle visualizzazioni ricevute e hanno l’obiettivo di diventare star. Vedere un coetaneo che invita ad alzare lo sguardo, a capire che questa vita è passeggera e che siamo chiamati all’infinito, credo che sia fondamentale».

Carlo Acutis, genio del web, se fosse vivo oggi non avrebbe quindi né Instagram né TikTok? Ci sono anche preti che usano questi mezzi per “evangelizzare”.
«Non penso proprio. Per lui erano belle opportunità d’incontro ma anche grandi perdite di tempo. Aveva Messenger ma lo lasciava sempre disattivato perché temeva che le chat virtuali prendessero il sopravvento sui rapporti reali. Preferiva telefonare ad un amico o incontrarlo e bere una Coca-Cola».

Una domanda personale.
«Prego».

Da quattordici anni, giorno dopo giorno, vive nella memoria di questo figlio, ma come mamma non sente un vuoto? Non ha mai pensato che comunque le è stato strappato qualcosa?
«Sono fermamente convinta che tutta la storia di mio figlio sia un progetto del Signore. Sì, Lui se l’è rapito e portato in cielo molto presto, ma non avverto assolutamente un vuoto. Anche perché Carlo “si fa sentire” spesso, manda tremila segni al giorno, in modo anche spudorato! (Ride). Da quando è morto ci ha riempito ancora di più la vita. Io sono diventata la sua segretaria».

Dopo quattro anni ha avuto altri due figli. Come vivono questa presenza forte in casa del fratello maggiore?
«Beh, anche loro fanno parte dello staff di Carlo! Vivono il rapporto con molta naturalezza, sono cresciuti con la presenza di Carlo e sono molto legati a lui. Anche loro hanno fatto la comunione presto, vanno a messa, dicono il rosario, il maschio ora in vacanza sta leggendo la vita del Curato D’Ars».

C’è qualcosa nel Dna degli Acutis insomma…
«No, credo sia una grazia di Dio per la nostra famiglia. Non so quale sia il Suo disegno per noi, cerchiamo di corrispondere e di dare testimonianza».

Ma lei ha mai provato, ad esempio, a sviare Carlo verso altre strade? Come ogni genitore, avrà avuto dei progetti per suo figlio.
«In realtà non ho mai tanto pensato a progetti del futuro, sono dell’idea che bisogna vivere l’attimo presente. Hic et nunc. Ho capito presto che su mio figlio c’era un disegno superiore. A 11 anni mi ha chiesto di fare il catechista, a me e alla nonna ha confidato di voler diventare sacerdote… Capivo che c’era altro. Poi ci sono stati tanti altri “indizi”: mi disse che quando sarebbe arrivato a pesare 70 kg sarebbe morto, così è stato. Una volte disse pure che sarebbe morto con una vena che si rompeva nella testa ed in effetti la leucemia gli ha provocato un’emorragia cerebrale. Oppure ripeteva “sarò sempre giovane”. Mi sono interrogata più volte come genitore: forse ho sbagliato qualcosa, forse non sono stata attenta e ha letto qualcosa che lo ha impressionato. Invece, dopo la sua morte, con un messaggio che mi ha lasciato, ho capito che Carlo aveva intuito sempre tutto. Sapeva a cosa Dio lo stesse chiamando. Per questo è morto come un santo. I dottori gli chiedevano: “Soffri?” e lui rispondeva: “C’è gente che soffre più di me”. Mai un lamento, ma col sorriso fino all’ultimo istante».

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