religione

Card. Ravasi: La croce, un segno scandaloso

Cardinal Gianfranco Ravasi Archivio fotografico Sacro Convento
Pubblicato il 31-03-2021

Il duplice significato del legno

C’è nella città vecchia di Gerusalemme una strada che porta ancor oggi il nome di Via Dolorosa. Su quel percorso, in un giorno della primavera forse dell’anno 30, un corteo avanzava sotto la direzione dell’exactor mortis, il centurione romano incaricato dell’esecuzione capitale per crocifissione. Il condannato, scortato da quattro soldati armati di lancia e dalla solita folla dei curiosi, procedeva recando sulle spalle probabilmente il patibulum, cioè l’asse trasversale della croce. Soste, incontri, piccoli episodi della narrazione evangelica che ha per protagonista Gesù di Nazaret sono divenuti le «stazioni» della Via crucis, la famosa pratica devozionale cristiana sorta già al tempo delle Crociate. Noi ora fisseremo il nostro sguardo sulla meta di quel gruppo di persone, un modesto picco roccioso fuori dalle mura di Gerusalemme, in aramaico Golgota, in latino Calvario, in italiano «Cranio», forse per la sua forma o perché era la sede delle condanne a morte per crocifissione. È noto che questa esecuzione capitale, il servile supplicium, come lo definiva lo storico romano Tacito, cioè il supplizio infamante degli schiavi, era praticata in Palestina dalle forze romane di occupazione nei confronti dei rivoluzionari, com’è attestato anche dallo scheletro di un giovane ebreo di nome Yehohanan (Giovanni) con un chiodo nella caviglia e segni di perforazione nell’avambraccio, ritrovato nel 1969 a nord-est di Gerusalemme. Le modalità della crocifissione, infatti, erano un po’ differenti da quelle che l’arte ha raffigurato nei secoli, ma il supplizio era comunque causa di «una sofferenza intollerabile e della più penosa delle morti», come affermava lo storico ebraico filoromano Giuseppe Flavio, vissuto poco dopo Gesù, nella sua opera Guerra giudaica.

Negli Atti degli apostoli, parlando della morte di Cristo, si afferma che egli «fu appeso a un legno» (5,30; 10,39; 13,29; 16,24). Questa espressione ha una duplice spiegazione. La prima è di ordine storico: la croce era costituita, infatti, di un legno verticale che era già infisso nel terreno, mentre – come si diceva – il condannato portava sulle spalle il braccio orizzontale della croce, che veniva poi sollevato sul palo verticale quando la vittima era stata inchiodata ai polsi o negli avambracci. Questo «legno» verticale era, dunque, l’asse portante. La forma finale della croce era, quindi, a T (in greco tau), anche se sopra di essa un altro paletto poteva recare il titulus, ossia la motivazione ufficiale della condanna a morte. L’altra ragione per il ricorso al termine «legno» è, invece, di indole teologica, come insegna san Paolo che cita un passo del libro biblico del Deuteronomio (21,23) per mostrare che in Cristo si addensa tutta la «maledizione» del peccato perché si trasformi in «benedizione» per noi: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti» (Galati 3,13-14). Lo stesso Apostolo nella sua Prima Lettera ai Corinzi proclama con forza che «noi annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei sia Greci, Cristo è potenza e sapienza di Dio» (1,23-24). Si comprende quanto forte sia la provocazione paolina nel porre al centro della fede e della stessa cultura cristiana un simile segno, enfaticamente opponendolo alla sapienza greca. Egli marca il contrasto definendo ciò che la croce appariva agli occhi dei pagani: essa è in greco chiamata môría, cioè «stupidità, idiozia, stoltezza, follia».

Era, infatti, espressione del fallimento assoluto di una vita, tenuto conto del significato sociale comune che essa rivestiva. Per il giudaismo, poi, continua Paolo, è skándalon, cioè pietra di inciampo, elemento di sconcerto, anche perché la tradizione ebraica non poteva accettare una simile fine ignominiosa per il Messia salvatore. Si assiste, così, a un vero e proprio capovolgimento dei valori umani, come l’Apostolo scriverà ai Filippesi: «Tutte le cose che per me erano un guadagno, le ho reputate per Cristo perdita e spazzatura» (3,7-8). È, dunque, ribadita con forza l’originalità del messaggio cristiano rispetto al sistema codificato della cultura allora dominante. Il Vangelo entra in scena in modo paradossale, mostrando attraverso la croce non una divinità fredda e distante dal nostro soffrire e morire, come si aveva nella religiosità classica, bensì un Dio che introduce la logica dell’amore e della condivisione. Una scelta che supera e spiazza ogni logica meramente razionale.  In modo paradossale e attualizzato potremmo dire che nessuno cercherebbe Dio su una sorta di «sedia elettrica», com’era allora nell’accezione comune la croce, sede solo di infamia e di delitto; e invece è proprio lassù che Dio si svela nel Cristo crocifisso, confermando ancora una volta la legge coniata dal profeta Isaia, quando riferisce questo oracolo divino: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (55,8). 

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