religione

Sinodo: un caleidoscopico panorama di vocazioni

Antonio Tarallo ANSA-ANGELO CARCONI
Pubblicato il 06-04-2018

Ci soffermiamo, in questa puntata, su due che hanno un considerevole risvolto nella società: la politica e l’arte

“Che cercate?”

Focus sul Sinodo dei Vescovi sui giovani

Vocazioni, tema cardine di tutto il Sinodo

di Antonio Tarallo

Terza puntata

Un caleidoscopico panorama di vocazioni

Quando si pensa al termine “vocazione”, la maggior parte delle persone, non può che andare col pensiero alla vocazione religiosa o matrimoniale. Queste, sicuramente, sono le due vie che la maggior parte dell’immaginario collettivo ha nella memoria. Ma, se volessimo andare a scavare – più a fondo – potremmo trovarne di diverse “tipologie”, diciamo così. Ci troveremmo difronte a un caleidoscopico panorama che ha “pungolato” le interviste qui raccolte.  

Ci soffermiamo, in questa puntata, su due che hanno un considerevole risvolto nella società:  la politica e l’arte che, in fondo, nell’espressione più alta di queste, avrebbero in comune uno spiccato aspetto pedagogico e antropologico.

Visto il Sinodo, come non iniziare, appunto da un giovane? Simone Tropea, filosofo, 27 anni, presidente dell’Associazione “Giovani Liberi&Forti". Un associazione nata a Roma, alla luce della Dottrina Sociale della Chiesa. “Liberi&Forti” si occupa di indirizzare giovani di età compresa tra i 16 e i 30 anni, verso un'opzione concreta di impegno politico e di servizio alla società che passi per l'assunzione coraggiosa e responsabile delle sfide che il nostro tempo conserva.

Politica. Bene Comune. Vocazione. Dott. Tropea, l'essere chiamati a interessarsi del Bene Comune, una vocazione particolare e non facile. Il termine politica, molte volte, viene confuso con altro...quale secondo lei, in sintesi, una giusta definizione di "vocazione politica"?

Pensare la propria professione e il proprio impegno come vocazione  vuol dire saper entrare in quello che si fa ogni giorno come nel  luogo concreto in cui siamo chiamati a scoprire  che la Caritá, l’essenza intima di Dio, é il  cuore della realtá. Se scoprissimo  sul serio che la Caritá é ció che non passa, perché é l’unica cosa che sa di Eterno, é  l’unica cosa che da veritá e senso alle nostre azioni,  allora, a partire da una profonda esperienza di senso, e non assecondando una certa inclinazione (ipocrita) al moralismo,  troveremmo veramente un criterio fecondo  e liberante, per affrontare  le piccole e grandi imprese di ogni giorno.  Se cerchi Dio  trovi la Caritá, se trovi la Caritá, capisci qual’é il fondamento dell’agire político per un cristiano, magari anche per un cristiano che non sa di esserlo, ma di fatto ama, si prende cura, quindi lo é.

 

Quel "senso da dare alla propria vita" (per citare il testo del Documento preparatorio) quanto può incidere - allargando un attimo gli orizzonti - sull'incidere nella vita collettiva, della società?

Occuparsi attivamente degli ultimi, dei piú poveri e abbandonati, in termini morali e materiali, costruendo uno spazio sociale che favorisca lo sviluppo integrale di ogni persona progettando percorsi concreti, sempre piú urgenti, di integrazione e di sviluppo. Sono sfide che toccano alla Chiesa in questo secolo. Sono le sfide in cui si gioca la fedeltà al suo sposo. Noi non ci occupiamo degli ultimi per mera filantropia, per lavarci la coscienza, per sentirci più buoni, ma perché sono i nostri fratelli, e i fratelli hanno anche diritto a lamentarsi di noi davanti al Padre. Il senso dice direzione, l’andare verso un punto, una meta. Per il cristiano, questo punto è l’Altro che si rivela nell’altro. È un esodo continuo dal proprio Io e dalle sue trappole, è una liberazione che ci restituisce sempre a quello spazio in cui veramente ci realizziamo: la relazione. Curare il tessuto relazionale in cui si è inseriti, custodire e costruire relazioni libere, giuste, edificanti, è fare politica, riconoscendo come l’orizzonte che cerca il nostro cuore, va ben oltre il nostro ombelico.

 

 

E ora veniamo all’altra “vocazione” (virgolette sono quasi d’obbligo): quella artistica. Ne parliamo con Padre Laurent Mazas, il Direttore esecutivo del Cortile dei Gentili, la struttura ideata da Papa Benedetto XVI nell’ambito del Pontificio Consiglio della Cultura e promossa dal Presidente dello stesso dicastero vaticano, cardinale Gianfranco Ravasi, per sviluppare il dialogo tra credenti, agnostici e atei. Lo interpelliamo anche come delegato per il Pontificio Coniglio sulle questioni inerenti al Sinodo.

Soffermiamoci, un attimo, Padre Mazas, sul termine stesso: “Vocazione artistica”. Semplice analisi. Vocazione, “vocare”, chiamare. In un mondo come quello di Oggi, fatto di tanti richiami, di tanto rumore, di informazioni che scorrono velocemente, come è possibile cercare di ascoltare “la Voce”? Quella “chiamata”?

La vocazione è qualcosa di molto grande… la esprime questo giovane che, nella morosità della sua vita quotidiana, sente parlare di un maestro diverso dagli altri e gli chiede: «Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?» (Matteo 19,16). Ogni giovane, credo, sente, ad un certo punto della sua vita, questo desiderio di grandi passioni, di assoluto. Dalla sua sete dipende la sua vulnerabilità alla freschezza della chiamata, la sua capacità di sentir sgorgare la fonte d’acqua viva, capace di procurare una pace profonda e un sentimento di pienezza che da senso alla vita.  

Alla prima risposta di Gesù, il quale aveva semplicemente elencato i comandamenti del Decalogo, il giovane aveva confessato la sua costante fedeltà a quelle norme, ma aveva intuito che la felicità non si trova nelle mere osservazioni dei principi morali; perciò, ha insistito: «Che altro mi manca?».

Alla logica dell’osservanza di alcuni precetti ben definiti, Gesù sostituisce la prospettiva dell’amore già espressa nella logica delle Beatitudini. La perfezione – “se vuoi essere perfetto”, dice Gesù – consiste nella trasformazione di tutte le azioni della vita in una donazione. Una madre non è madre solo ogni tanto, lo è in ogni minuto e in ogni atto della quotidianità. Così, l’uomo chiamato si impegna a vivere in ogni fibra del suo essere la dimensione amorosa che lo lega all’Alto e all’altro, Dio e il fratello.

Questa chiamata, questa voce che invita alla perfezione, viene percepita solo da chi ha il cuore aperto e libero, chi vive la beatitudine dello “spirito da poveri”, il cuore che ha saputo liberarsi da realtà che invadono quello spazio interiore. Ecco perché Gesù invita il giovane a rinunciare ai suoi beni: «Va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; e poi vieni e seguimi!» (19,21). La ricchezza accumulata invade l’intimità profonda, prosciuga i desideri e opera una seduzione tale che neanche si rende conto che si trova richiuso nella tristezza: «Udita questa parola, il giovane se ne andò, tutto triste: possedeva infatti molte ricchezze» (19,22).

“Artistica”, aggettivo che viene posto dopo, appunto il termine “chiamata”. E qui, penso, la “cosa” cominci a farsi più complicata. E’ bello pensare, in fondo, alla sua stessa radice etimologica, “quel mettersi in moto” che ben si coniuga – penso – alla parola vocazione. Ma i Tempi d’Oggi un po’ hanno stravolto lo stesso termine, visto che molte volte se ne fa un uso inappropriato. E, allora, come non cadere in facili “tentazioni” di “fake (mi sia concesso il termine in uso appunto in internet) chiamate artistiche”? In poche parole come  riconoscere una vera chiamata artistica?

Mi chiedo quanto è pertinente l’espressione “vocazione artistica” e, se lo è, come viene capita questa “vocazione”? L’artista ha sicuramente una sua vocazione all’interno della comunità, ma l’arte può essere una finalità? Capisco che la “vocazione” possa essere definita come una “forte attrazione o inclinazione per qualcosa”, ma nel linguaggio di Papa Francesco, cioè quello del Vangelo, la vocazione significa molto di più, perché questo “qualcosa” è Dio! L’arte ci spinge a quella radicalità richiesta da Cristo ai suoi discepoli? Certo, come lo dicevano gli anziani con Aristotele, c’è una catharsis nell’arte: l’eroe del teatro tragico rappresenta la condizione umana con le sue emozioni, la pietà e il timore, le sue fragilità, la nobiltà dei sentimenti… e non solo nella tragedia, l’arte in generale molto spesso aiuta l’uomo ad entrare nel senso profondo della sua condizione umana e a liberarsi da tutti gli inquinamenti interiori. In questo senso, diventa una “voce” che chiama, non solo nella sua dimensione estetica, ma anche metafisica perché rivela la “nudità dell’essere” – per dirlo con gli esistenzialisti – cioè ci mette di fronte all’essenza della realità come anche della condizione umana. Sarà forse una “vocazione minore” perché quella voce non è di Dio, non esprime un suo progetto, una missione divina che precede l’esistenza di una sua creatura e che richiede una risposta di adesione libera.

La Bibbia ci insegna che ogni vocazione avrà i colori delle singole persone che l’accoglieranno con la molteplicità delle loro caratteristiche, dei loro doni e dei loro limiti, della loro grandezza e delle loro miserie. Tra le vocazioni, l’artista avrà sicuramente un suo colore e calore.

Antonio Tarallo


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