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Ma la selva oscura è la fine del tunnel e l'inizio della luce

Gabriella M. Di Paola Dollorenzo Gustave Dorè
Pubblicato il 07-01-2021

Dante sottolinea la necessità della vita attiva, ma soprattutto della vita contemplativa

Il trionfo della Vita, nel tempo di Natale che stiamo vivendo, è stato preceduto da un Avvento caratterizzato in Italia da migliaia e migliaia di morti, sessantamila, settantamila, forse di più. Prima del Covid la nostra modernità ci aveva abituati a rimuovere anche solo l’idea della morte e ora restiamo basiti nel vedere affiancate immagini di folle itineranti negli shopping natalizi a immagini di ambulanze in fila, prima dell’ingresso nella terapia intensiva. Giustamente papa Francesco ci ha invitato a sentire la gioia del Natale e forse possiamo farlo davvero recuperando il senso profondo della vita ma anche della morte, che della vita fa parte. Ciò era ben chiaro a Dante che s’inoltra nel mondo dei trapassati e conosce se stesso e Dio proprio attraverso gli incontri, diretti e indiretti, con essi.

Eppure non solo i dannati dell’inferno, ma anche le anime del purgatorio e i beati del paradiso hanno una vitalità, fisica e interiore, che coinvolge e travolge il poeta, sono più che mai vivi nelle parole, nei ricordi, nelle preghiere che rivolgono a Dante, perché la condizione di defunti non ha cambiato ciò che erano prima di morire, anzi l’aver conosciuto il fine ultimo della propria vita, fine rinnegato dai dannati, ne ha esaltato il valore per l’eternità. «Venite, benedetti del padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo». Le parole di Matteo (25, 34) sembrano accompagnare la recente dipartita di Giuseppe Dalla Torre, mirabile exemplum del laico cristiano, impegnato nell’esercizio quotidiano delle virtù teologali e cardinali, che raggiunge così il Fine ultimo della sua esistenza. Immediato il richiamo a Dante, la cui vita e opera è una sorta di specimen per interpretare il senso e il significato della vita di tutti noi, anche di chi non crede nella vita eterna, considerando la sua volontà di “spiegare”, con la Commedia, il mistero della morte.

L’inizio dell’inferno, la selva oscura, che «tant’ è amara che poco è più morte» non indica la fine della vita biologica, ma la possibilità concreta di perdersi per sempre, per l’eternità. Le fonti teologiche della Commedia, tra cui l’Apocalisse e i Padri della Chiesa (p.es. Lattanzio), distinguono tra la prima mors, la morte del corpo, e la mors secunda, la dannazione eterna. Allo stesso modo Francesco d’Assisi nelle Laudes creaturarum considera la morte dell’anima: «Beati quilli ke se trovarà nelle tue sanctissime voluntati/ ka la morte secunda nol farà male». Sant’Agostino ( Sermo 344,4) definisce le “due” morti, temporalem, riferita al corpo di ogni essere umano, e sempiternam, riferita ai malvagi, poiché «verrà l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno: quanti fecero il bene, per una risurrezione di vita e quanti fecero il male, per una risurrezione di condanna» (Giovanni, 5, 28–29). Il Santo d’Ippona, fonte teologica di Dante, non contrappone la condizione in vita a quella in morte ma semplicemente legge quest’ultima come “privazione”: pertanto non è Dio che determina la morte perché questa altro non è che un “ritirarsi” della vita, per cause inerenti alla vita stessa del corpo umano.

Molto chiaramente comprendiamo il rapporto vita–morte nel pensiero teologico dantesco attraverso il poetico racconto di Buonconte da Montefeltro (Purgatorio, V, 100-108): «Quivi perdei la vista e la parola;/ nel nome di Maria fini’, e quivi / caddi, e rimase la mia carne sola. / Io dirò vero, e tu ridì tra ‘ vivi: / l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno / gridava: “O tu del ciel, perché mi privi?/ Tu te ne porti di costui l’etterno / per una lagrimetta che ‘l mi toglie; / ma io farò dell’altro altro governo!». Il demonio si accanisce sull’altro, il corpo mortale, ma Buonconte è salvo perché il suo pentimento permette all’angelo di Dio di strapparlo al Male: dopo il purgatorio godrà la Vita eterna. Di essa possiamo avere percezione in hac vita (Epistola XIII, XV, 39), considerandone il significato propriamente morale della vita umana. Così argomenta Dante nel Convivio, in cui la parola vita indica l’esercizio della facoltà più importante dell’essere umano, la ragione: «Quando si dice l’uomo vivere, si dee intendere l’uomo usare la ragione, che è sua speziale vita e atto de la sua più nobile parte» (CV, II, VII,3), conseguentemente il centro della razionalità umana è l’identificazione del Fine ultimo della vita.

Attingendo all’Etica nicomachea di Aristotele e, parallelamente, a Luca 10,38, Dante sottolinea la necessità della vita attiva, ma soprattutto della vita contemplativa, consistente nelle operazioni de le intellettuali (CV, IV, XXII,18), poiché l’uso speculativo dell’intelletto conduce al sommo intelligibile, alla beatitudine, a Dio. In questa prospettiva l’anello di congiunzione vita– morte è la Fede: «la nostra fede…per la quale campiamo da etternale morte e acquistiamo etternale vita» (CV, III, VII, 15). Forse l’antidoto interiore alla pandemia consiste nel credere, nonostante l’imperversare della morte dei corpi, nella sacralità della vita terrena in vista di quella eterna. (Avvenire)

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