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Elogio della distrazione

Marco Belpoliti Unsplash
Pubblicato il 07-01-2021

Lasciare che la mente voli è un atto di speranza

Sto leggendo La potenza della distrazione di Alessandra Aloisi. Dietro di me si sente il ticchettio della sveglia. Mi alzo e la sposto in un' altra stanza. Nell' appartamento di fianco qualcuno ha acceso la radio e trasmette musica ad alto volume. Provo a battere contro la parete nella speranza che abbassino. Mi sentono. Mi risiedo al tavolo e la sedia scricchiola, se mi sposto appena di lato. Cerco di stare fermo. Davvero è difficile restare concentrati e raccolti nei propri pensieri. Anche il libro che leggo è fonte di disattenzione: mi viene in mente di alzarmi e cercare un libro che cita; ce l' ho, ne sono certo, l' ho letto. Non lo trovo. Però nella libreria ne vedo un altro che mi interessa e mi metto a sfogliarlo.

Quanto è fragile l' attenzione, eppure ne ho assolutamente bisogno se voglio terminare il libro di cui voglio scrivere. Ce la farò? Certo, perché questo libro è una lunga lode della distrazione, attività in cui sono particolarmente versato. La mia carriera scolastica è stata segnata da una continua lotta contro la disattenzione con alterni risultati. Per fortuna Alessandra Aloisi, docente di letteratura francese a Oxford, mi sta aiutando a capire perché e come serve la distrazione. Intanto la distrazione è solo l' altra faccia di una concentrazione estrema, perché bisogna distinguere i «distratti dispersivi» dai «distratti assorti». Farò parte dei primi o dei secondi? Già qualche anno fa Michael C. Corballis in La mente che vaga (Cortina) mi aveva rassicurato: per almeno metà della nostra vita la mente si distacca dalle incombenze quotidiane e vaga.

Chi è distratto, scrive la professoressa di Oxford, «è quasi sempre attento a qualcosa d' altro e capace di vedere ciò che elude l' attenzione di chi è troppo attento o concentrato ». Sarà vero? Lisa Iotti in un libro, 8 secondi. Viaggio nell' era della distrazione (il Saggiatore) sostiene che per via dell' iperconnessione in cui viviamo, a causa dei nostri smartphone e tablet, la nostra attenzione è come quella di un pesce rosso (ma avrà letto gli studi di Karl von Frisch sui pesci, in cui si sostiene il contrario?). Alessandra Aloisi ha idee opposte. Dice che dal XV secolo a oggi la fenomenologia della distrazione è ben poco cambiata. Possibile? Semmai la tecnologia attuale renderebbe più manifesti ed evidenti, ampliando-li, determinati aspetti o tendenze della natura umana, tra cui appunto la distrazione. L' arrivo di un messaggio email o il richiamo sonoro di un social network non funzionano piuttosto come un richiamo della nostra attenzione?

Yves Citton, uno studioso francese, nei suoi libri sull' attenzione, sostiene che i cellulari e i social media più che «armi di distrazione di massa» sono dei «dispositivi attenzionali collettivi»: si prendono tutta la nostra attenzione, la concentrano, la organizzano, e ora anche la registrano. Allora che fare? La verità è che Aloisi e Corballis ci mostrano che la distrazione è una realtà molto complessa, che non si può ridurre a un significato unico, così come ciò che cattura la nostra attenzione, impedendo alla nostra mente di distrarci, è a sua volta una forma di distrazione.

All' origine della discussione su questa coppia ci sono due scrittori e filosofi: Montaigne e Pascal. Secondo il primo ricorrere alla diversion non è che un altro modo per favorire la naturale tendenza degli esseri umani a promuovere il mutamento e la trasformazione: «Noi pensiamo sempre ad altro; la speranza di una vita migliore ci trattiene e ci sostiene» ( Essais). Per Pascal è il contrario: il divertissement è la causa del peccato, dell' allontanamento da Dio, da ciò che è stabile ed eterno: «tutta l' infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non sapere restare tranquilli in una stanza" ( Pensées ). Chi ha ragione? Alessandra Aloisi scrive che se a prima vista la distrazione ci farebbe pensare a un dualismo tra mente e corpo, per cui il secondo resta fermo, mentre il pensiero vola lontano, in realtà attesta proprio il contrario: l' indissolubile e inestricabile unità di mente e corpo. Gli angeli, secondo la tradizione cristiana, sarebbero esseri incorporei e non conoscerebbero la distrazione. Wim Wenders nel suo Il cielo sopra Berlino con una fulminante intuizione fa ascoltare ai suoi esseri incorporei i pensieri segreti delle persone, le loro divagazioni mentali, e proprio per questo uno di loro, Damiel, comincia a desiderare di diventare un uomo perdendo le sue prerogative divine. Forse essere distratti non è poi così male. Corballis ha spiegato che esistono attività soggette al nostro controllo in cui la mente è libera di vagare: camminare, guidare un' automobile, ascoltare musica, eccetera. Facciamo tutto come se avessimo innestato il pilota automatico, e intanto pensiamo ad altro: distrazioni preordinate, ricordi passati, pianificazione di attività future. Sono le voci che Damiel nel film scritto da Peter Handke ascolta con grande desiderio. Siamo distratti, ribadisce Aloisi, proprio perché abbiamo un corpo e una mente collegata.

Ci sono distrazioni involontarie come il sogno o le allucinazioni, e quelle indotte da situazioni alterate della mente o ricorrendo a droghe. Poi c' è l' empatia, che è un girovagare nella mente di un altro. E c' è anche un' altra attività fondamentale: pensare-altrimenti. Si chiama serendipity , che è il modo attraverso cui la mente che fluttua liberamente scopre improvvisamente qualcosa che non cercava, ma che ha trovato (Picasso: «Io non cerco trovo»). Il termine inglese è stato introdotto da Horace Walpole nel 1754 e indica le scoperte fatte per caso, quelle che non accadono se la mente restasse fissa, attenta e concentrata su quel che stava cercando, se non avesse dato ascolto a ciò che l' ha distratta.

Queste sono le pagine più belle e affascinanti di La potenza della distrazione (il Mulino, pagine 146), dedicate a spiegare la differenza tra la rêverie, che è una sorta di sogno a occhi aperti e la fantasticheria, che si basa sulla fantasia e sulla capacità di fingere. Ci sono Proust, Poincaré, Bergson, Piaget e molti altri "studiosi" della distrazione. Non lasciatevi convincere dalle condanne morali e sociali della distrazione: ne abbiamo un gran bisogno. Se poi vi parlano della necessità di essere multitasking, diffidate: vogliono appropriarsi di quello spazio mentale opaco e improduttivo per metterlo al lavoro. Ha ragione Montaigne: pensare ad altro alimenta la speranza. E ora ne abbiamo proprio bisogno. (La Repubblica)

 

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