Il successo di Alessandro Di Gregorio con il cortometraggio "Frontiera" ai David di Donatello

Redazione
Pubblicato il 31-05-2019

Il regista vuol far arrivare a tutti il significato di 'migrare' e del 'restiamo umani' di Vittorio Arrigoni

Davanti a un’opera come Frontiera bisognerebbe togliersi il cappello. Miglior cortometraggio ai David di Donatello 2019, il lavoro del regista Alessandro di Gregorio è un’operazione cinematografica degna dei capolavori che maestri del nostro bel Paese hanno consegnato alla storia.

La trama è semplice ma intensa, composta da gesti e silenzi, e si snoda in soli quattordici minuti intorno a due figure-chiave: quella di un adolescente al primo giorno di lavoro nell’impresa di pompe funebri gestita dalla sua famiglia, e quella di un sommozzatore della Guardia Costiera, giunto a Lampedusa per recuperare dal mare i corpi dei migranti vittime nel naufragio. Abbiamo incontrato Alessandro di Gregorio, che ci ha raccontato qualcosa in più.

Dunque, due figure importanti: uno che deve recuperare i corpi dei naufraghi, e l'altro che li deve seppellire. Come nasce l’idea di questo incontro?

«Il corto nasce da un'idea dello sceneggiatore Ezio Abbate. Dopo la tragedia del 3 ottobre 2013, Ezio aveva letto un articolo su Repubblica di Attilio Bolzoni, in cui la tragedia veniva raccontata in modo non convenzionale, attraverso due punti di vista: quello dei sub della guardia costiera e quello delle famiglie di alcune agenzie di pompe funebri giunti sull'isola dalla Sicilia insieme ad un tir carico di bare. Entrambi dovevano svolgere il loro lavoro ma in una situazione straordinaria, almeno fino ad allora».

L’assenza di dialoghi non provoca alcuna menomazione all’opera, ma le conferisce ulteriore potenza. Lo spettatore viene talmente risucchiato, perfino negli abissi, da sentirsi coinvolto. È scontato chiederti il perché di questa scelta?

«In molto ci chiedono il perché di questa scelta. Dal punto di vista artistico, la nostra è stata sicuramente una sfida; dal punto di vista della narrazione, invece, è stata una scelta dettata dal fiume di parole che si sono spese e che si continuano a spendere sull'argomento. E purtroppo, molte di queste sono solo bugie. Il più bel complimento che abbiamo ricevuto è stato quello di un giornalista de Il Manifesto che ha definito il nostro corto migliore di qualsiasi editoriale di qualsiasi giornale che abbia trattato l’argomento».

Ottime critiche, tanti consensi e riconoscenti. Sei consapevole di aver creato qualcosa di pazzesco?

«No, perché quando lavoro a un progetto mi concentro talmente tanto da non pensare a come potrà reagire il pubblico. Volevamo soltanto raccontare una storia. Certo, una storia particolare e non semplice da raccontare, ma comunque una storia. Ovviamente siamo tutti molto felici dei premi e dei riconoscimenti arrivati – e che continuano ad arrivare – perché ci spingono ad andare avanti e a fare sempre meglio. Parlo sempre al plurale perché un film, e in particolar modo un corto, è fatto da tante persone. Senza di loro Frontiera non esisterebbe».

Hai girato a Lampedusa, luogo che davvero meriterebbe il Nobel per la Pace. Com’è stata la tua esperienza sull’isola e con la realtà che hai raccontato?

«Lampedusa è davvero un posto incredibile e, come tutte le isole, è un mondo a sé. I lampedusani sono persone meravigliose, ci hanno accolti a braccia aperte anche se molti non ne potevano più di sentir parlare sempre dello stesso argomento. E' una contraddizione che si è vista anche durante le recenti elezioni: da un lato mandiamo Pietro Bartolo al Parlamento europeo, dall'altro la Lega stravince sull'isola, anche se in realtà ha stravinto l'astensionismo e hanno perso tutti i partiti».

E probabilmente le opere come la tua – generando infinite riflessioni, e veicolando anche un sentimento di bene – potrebbero servire a ridimensionare questa foga d’intolleranza divenuta manifesto politico.

«Mi piacerebbe che Frontiera arrivasse a tutti quelli che non sanno cosa vuol dire migrare, e a tutti quelli che non hanno ancora capito i significato del "Restiamo umani” di Vittorio Arrigoni».

Intorno al "Restiamo umani” si è sprigionata una bella energia umana e creativa. Ma sempre di più, purtroppo, accoglienza fa rima con disubbidienza.

«Se in futuro passeranno determinate leggi ci sarà sempre più bisogno di disobbedire perché salvare una vita vale più di mille regole. La solidarietà verso gli altri dovrebbe essere applicata sempre, in ogni situazione e circostanza».

La sommossa civile e la lotta nonviolenta ci salveranno?

«Non lo so, ma sono sicuro che se qualcosa cambierà sarà grazie a quelle persone che – con le loro azioni – dimostrano ogni giorno che una società migliore è possibile. Basterebbe cominciare a guardare oltre il proprio naso».

Il cinema può essere un antidoto per una sensibilizzazione più efficace. Frontiera è a portata di mano, disponibile su RaiPlay. Basta un click.

«Il cinema è sempre un ottimo punto di partenza per riflettere su un argomento, per cominciarne a parlarne. A me capita di continuo con i film che più ho amato. E il fatto che Frontiera sia su Raiplay è un'ottima cosa. Quando Frontiera viene proiettato in una sala, nel buio, insieme ad altre persone, si sprigiona un'energia incredibile; mi chiedo sempre come sia possibile. E subito dopo la gente si ferma, ad ascoltare, per capire, riflettere e discuterne con me e con chi mi ha organizzato la proiezione. Questo è un segnale incoraggiante».

Sì perché Frontiera piace. Non è un caso sia stato fregiato con un David.

«Nessuno di noi si aspettava un premio così importante, per cui l'emozione è stata molto forte. All'improvviso mi sono sentito scaraventato sulla vetta più alta del cinema italiano ma sono anche consapevole del fatto che ora sarà molto più dura perché qualsiasi cosa farò avrò tutti gli occhi puntati sul mio lavoro».

Ovviamente. A questo punto non potrà mancare un lungometraggio. Stai già lavorando a qualcosa di altrettanto interessante?

«Questa domanda mi terrorizza un po’. Insieme ad Ezio, lo sceneggiatore, e a Simone Gattoni, il produttore della Kavac, stiamo già pensando al lungo, sì. Ci vorrà tempo, proprio perché vogliamo fare qualcosa di importante. Spero meno dei quattro anni impiegati le per la realizzazione di Frontiera».


Domenico Marcella

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