francescanesimo

Uno sguardo nuovo su Francesco

Mons. Felice Accrocca Archivio Fotografico Sacro Convento
Pubblicato il 04-07-2022

Articolo di mons. Accrocca, apparso tra le colonne de "L'Osservatore Romano", sul nuovo saggio di Adelaide Ricci

Certo, non si può dire che Adelaide Ricci manchi di coraggio. Nel suo libro Apparuit effigies. Dentro il racconto delle stigmate (Unicopli 2021, 380 pp.), la medievista, docente presso il Dipartimento di Musicologia e Beni culturali dell’Università di Pavia (sede di Cremona), affronta infatti il tema — complesso e controverso — delle stimmate di Francesco, facendo perno soprattutto sul racconto di Bonaventura.

 

Ebbene, ieri come oggi, tanto la miracolosa impressione delle piaghe di Cristo sul corpo dell’Assisiate quanto la figura stessa dell’agiografo che narrò l’evento hanno avuto (e hanno) il potere di suscitare notevoli resistenze: le stimmate hanno avuto non pochi detrattori nel XIII secolo e per tutto il Medioevo fino ai giorni nostri, e così pure la vita di san Francesco scritta da Bonaventura (la celeberrima Legenda maior) è stata oggetto di critiche a partire dai francescani Spirituali del Due e Trecento per arrivare ai moderni storici del francescanesimo. Non sorprende, quindi, che anche l’autore della Premessa — lo storico francese André Vauchez — si sia mostrato, almeno inizialmente, perplesso nei confronti di tale scelta: «ai suoi [dell’autrice] occhi, il ministro generale avrebbe non solo compiuto un’opera di alta densità spirituale, ma anche dato una testimonianza convincente su questo episodio misterioso e sui processi mentali che l’avevano reso possibile.

 

Confesso — scrive ancora Vauchez — di aver avuto inizialmente qualche dubbio di fronte a una tale affermazione». La lettura del lavoro ha però finito per convincerlo del contrario: «Devo riconoscere che l’analisi accurata e il commento approfondito che la Ricci dà dei testi bonaventuriani relativi alla stimmatizzazione del Poverello mi hanno convinto che tale giudizio negativo era troppo sbrigativo e andrebbe rivisto». In realtà, quel che Adelaide Ricci contesta a più riprese, dissentendone con chiarezza (e — aggiungo — con piena ragione), è il sovrapporsi dei piani, la tendenza attualizzante che induce a mescolare i concetti e le immagini del presente con quelli vigenti nei secoli dell’Età di mezzo, fino ad attribuire a uomini che avevano una ben diversa impalcatura concettuale e altri criteri di valore e di giudizio, idee e termini più nostri che loro. Per non dire poi di una visione del mondo e della vita la quale tende pregiudizialmente a escludere tutto ciò che supera la sfera dell’immanente, tutto quanto sfugge a un riscontro matematico e puntuale: come osserva l’autrice, «ridurre l’esperienza mistica — e di conseguenza il suo racconto — alle misure della componente emozionale è un errore di scala da cui dipende una deformazione prospettica nell’analisi del fenomeno».

 

Il volume si compone di quattro capitoli più la conclusione, cui segue un ricco apparato iconografico. Ricci premette anzitutto un quadro complessivo (capitolo 1) del ricchissimo corpus agiografico dedicato al Santo di Assisi, indubbiamente il più ricco e complesso nel panorama agiografico del Medioevo occidentale, per concentrarsi poi (capitolo 2) sul resoconto che ne diede Bonaventura, dacché il teologo continuò a indagare sull’episodio e ad approfondirne il mistero, come evidenziano le versioni, non del tutto coincidenti, presenti nella Legenda maior e nella Legenda minor, posteriore di qualche anno rispetto all’opera maggiore. Lo sguardo si allarga quindi ai racconti degli altri agiografi francescani (capitolo 3), anch’essi veicolo di trasmissione di un fatto inusitato prima di allora: non si deve infatti dimenticare che già frate Elia, nella lettera scritta all’indomani della morte dell’Assisiate, annunciava a tutti «una grande gioia, un miracolo del tutto nuovo. Non si è mai udito al mondo un portento simile, fuorché nel Figlio di Dio, che è il Cristo, Dio lui stesso».

 

La studiosa rivela attenzione estrema alla polisemia dei testi (molti sono da lei offerti in traduzione polisemica) aprendo orizzonti altri non in maniera arbitraria, quanto in piena aderenza a quello che era il vissuto e il sentire spirituale di un’epoca diversa dalla nostra: «La metafora medievale non è un traslato linguistico, è parte della sfera simbolica, tutt’altro che immateriale; ciò che avviene spiritualmente è sempre legato al corporeo (fisicamente e psicologicamente) perché l’individuo è tale solo nell’unione delle sue componenti». A mio avviso, sarebbe risultato più produttivo invertire l’ordine dei capitoli 2 e 3, poiché quando Bonaventura scrisse le sue opere gran parte dei testi agiografici erano già stati redatti e perciò egli poté utilizzarli (e in effetti li utilizzò, soprattutto quelli di Tommaso da Celano).

 

Quanto alla Legenda ad usum chori, accogliendo la proposta avanzata a suo tempo da Eleonora Rava e Filippo Sedda, Ricci propende per attribuirla a Giuliano da Spira; per quanto mi riguarda, la recente scoperta di una nuova vita dovuta alla penna di Tommaso da Celano chiarisce il tortuoso percorso di questo testo: egli l’estrasse dall’opera di recente rinvenuta, nella quale a sua volta però attingeva a piene mani dalla Vita sancti Francisci di Giuliano da Spira.

 

L’ultimo, denso capitolo, dedicato infine a «Una relazione di immagine», si concentra sullo sguardo, nella convinzione che «la relazione fra testo e immagine va al di là di una semplice traduzione dell’uno nell’altra. Non si tratta solo di rintracciarne i reciproci legami, ma anzitutto di muoversi entro la costellazione semantica delle imagines per come esse erano attive nel medioevo: narrazioni in parole e in figura». Secondo Ricci, «la questione dello sguardo è realmente in primo piano anche in una prospettiva euristica, dal momento che ciò che oggi pensiamo non ci riguardi è spesso ciò che non vediamo in fonti del passato».

 

Si tratta, come si vede, di un libro ricco di spunti, nel quale la studiosa si muove con sicurezza, interloquendo con libertà, ma in modo rispettoso e fermo, con una tradizione storiografica che negli ultimi trent’anni ha proposto sottolineature e accentuazioni diverse. Un libro salutare, quindi, che potrà anche far discutere, ma che certamente non potrà passare inosservato.

L’Osservatore Romano, venerdì 1 luglio 2022

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