francescanesimo

Il Francesco di Nikos Kazantzakis

Lorenzo Chiuchiù Caravaggio
Pubblicato il 03-07-2021

L’autore mentre scrive è convinto di sentire la «presenza invisibile del santo»

Nikos Kazantzakis (Iraklio, 1883 - Friburgo in Brisgovia, 1957) frequenta da ragazzo una scuola cattolica gestita da francescani. Gli studi di filosofia moderna e contemporanea (dal 1907 al 1909 studia alla Facoltà di filosofia di Parigi) e gli autori prediletti, Nietzsche e Bergson, non gli impediranno di interessarsi al misticismo del monte Athos e alla meditazione buddista. Negli anni esplorerà la letteratura russa e attraverso essa si confronterà con il Cristianesimo più paradossale. Traduce il Faust e la Divina commedia, Shakespeare, Maeterlinck e Platone. Viaggiatore instancabile, memorabile il suo Diario di viaggio in Russia, non smetterà di sentire la lingua di Omero come l’unica patria autentica. 

Solo per ricordare alcune delle sue opere che fanno parte ormai del canone letterario occidentale: Zorba il Greco, L’ultima tentazione di Cristo, Ascetica, la monumentale riscrittura dell’Odissea, Rapporto a El Greco, il dramma su Buddha. I capolavori di Kazantzakis, pur nel loro apparente eclettismo, hanno un’origine comune: sono tutte immagini o evocazioni di ciò che la sapienza orientale chiama tapas, ardore, e che la tradizione occidentale chiama estasi. Sant’Agostino, per descrivere il punto in cui ogni discorso razionale cede alla grazia, parla di una particolare estasi intellettuale che definisce excessus mentis. Alberto Magno scrive del raptus che permette di vedere l’invisibile. La stessa dimensione estatica ritorna nell’Apocalisse: Giovanni, scrive e vede in spiritu, in estasi. 

Tutte queste definizioni di estasi sono riconducibili a un versetto del Vangelo di Luca, nel quale Gesù dice: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!” (12, 49). Ed è da qui che bisogna partire per leggere il Francesco di Kazantzakis e la sua genesi.  “Tormentato da dubbi esistenziali, nel gennaio del 1924 Kazantzakis parte per l’Italia e soggiorna per due mesi e mezzo ad Assisi, dove è affascinato dalla figura di San Francesco, nella cui sete di assoluto si riconosce”. Ispirato dalla permanenza ad Assisi il poeta scriverà il romanzo su Francesco. Per metà elaborazione delle fonti francescane, per metà affabulazione agiografica, la vita del santo viene raccontata con una partecipazione che somiglia ad una apologia appassionata. Kazantzakis è convinto, mentre lo scrive, di sentire la “presenza invisibile del santo” (p. 7); Francesco “ardeva notte e giorno, aveva un fuoco perenne dentro di sé: aveva Dio” (p. 318).

Il Poverello di Dio, questo il titolo originale del romanzo, non è venuto a portare la spada, ma per Kazantzakis non bisogna equivocarne la mitezza: come Cristo, Francesco porta il fuoco, la sua ascesi ha per il poeta qualcosa di eroico. “Per me San Francesco è il modello dell’uomo militante che con una lotta incessante e durissima riesce a compiere il dovere supremo dell’uomo, quello che è superiore anche alla morale, alla verità e alla bellezza: trasformare la materia che Dio gli ha affidato rendendola spirito” (p. 7). Assoluto, estasi, spirito che trasforma: per Kazantzakis sono l’unica realtà indubitabile, contrariamente a quanto in genere gli uomini pensano. È come se il poeta non facesse che raccontare tutta la vita di Francesco attraverso la visione estatica che il Santo ebbe alla Verna: “E all’improvviso, nel cielo sfolgorò un bagliore rapido, rossissimo; alzai gli occhi; un serafino con sei ali di fuoco scendeva, e al centro, tra le ali, Cristo in croce” (p. 336). 

È una visione la cui verità confina con la follia: “Io porto nel mondo una nuova follia” (p. 201), dice Francesco, ed ecco dunque l’excessus mentis: “Abbi fiducia nell’anima dell’uomo, frate Leone; non ascoltare le persone ragionevoli, frate Leone, l’anima può l’impossibile” (p. 185). Ecco l’estasi che riconosce lo spirito che unifica la materia: “Dietro la Risurrezione di Cristo vedo la risurrezione di questo mondo povero e disgraziato. Esiste gioia più grande di questa, padre santo? Come può non smarrirsi la mente dell’uomo? Io sono smarrito; non so da dove cominciare, non so quale sia l’inizio, quale il centro, quale la fine. Tutto è una cosa sola, padre santo, tutto è un sospiro, un ballo, un grido forte, disperato e pieno di speranza” (p. 178).  E attraverso il “tutto è uno”, fonte ed esito di ogni misticismo, Kazantzakis racconta il raptus visionario di Francesco: senza bisogno di prove o di ragioni il santo vede il compimento dell’escatologia cristiana: “Così sarà il Giorno del Giudizio, frate Leone, una primavera; e i morti spunteranno alla luce come germogli” (p. 163); “noi qui non facciamo domande, siamo entrati nella certezza” (p. 143).

È una certezza che permette a Francesco di accettare l’impossibile:“Hai detto: chi vive con i lupi deve essere lupo, e non agnello; questo hai detto, frate Leone, questo dicono gli uomini assennati; però a me Dio ha dato una follia, una nuova follia, e dico: chi vive con i lupi deve essere agnello, e lo divorino pure! Come si chiama quella cosa immortale che c'è dentro di noi?”. “Anima”. “Quella, frate Leone, non la possono divorare” (p. 394). Si comprende perché quando nel 1956 Albert Camus ricevette il premio Nobel per la letteratura scrisse un telegramma a Nikos Kazantzakis: “Voi l’avreste meritato cento volte di più”.

 

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