Le visite dei pontefici
«Sto pregando che i miei amici nel Sud di Israele e a Gaza stiano bene, in questo momento difficile. Abbiamo avuto uno shabbat tranquillo nella nostra città di Tsfat, nel Nord…». I miei amici nel Sud di Israele e a Gaza: ha scritto proprio così l'altro giorno sulla sua pagina Facebook, Eliyahu McLean da Safed, la città della kabbalah. E non si tratta di un modo di dire, perché questo ebreo ortodosso che vent'anni fa all'università di Berkeley era un leader degli attivisti filo-israeliani, gli amici oggi li ha sul serio tanto da una parte quanto dall'altra della barricata. Da ebreo ortodosso lui va infatti a parlare con i ragazzi degli insediamenti israeliani, ma per portarli con sé a incontrare i loro coetanei arabi. E viceversa. Nel 2005 - alla vigilia del ritiro da Gaza voluto da Sharon - ha portato degli amici arabi israeliani da alcuni ebrei che stavano a Neve Dekalim, uno degli insediamenti della Striscia che di lì a poche ore sarebbero stati evacuati. Voleva che ciascuno capisse il dramma dell'altro. È anche questo la guerra in Israele e a Gaza: la sofferenza di quanti, a partire da una motivazione religiosa, da tempo si spendono per costruire ponti di riconciliazione. Sono i loro percorsi di incontro la prima infrastruttura ad andare in frantumi sotto la pioggia di missili e i raid dell'aviazione. Loro comunque - infaticabili - anche tra le macerie cominciano a ricostruire. Come fanno le famiglie ebree e musulmane del Parents Circle, un'associazione di israeliani e palestinesi accomunati dal fatto di aver visto un proprio caro morire a causa del conflitto. Da anni - loro che hanno pagato il prezzo più alto di questa guerra - provano ad invitare tutti ad andare oltre l'odio, voltando davvero pagina. Il cardinale Carlo Maria Martini amava citarli come un esempio della fatica personale che costa sempre costruire la pace. Di fronte alle notizie drammatiche di queste ore il Parents Circle è tornato a far sentire la sua voce: «Come famiglie israeliane e palestinesi ferite, che hanno perso membri della propria famiglia a causa di questo incessante circolo vizioso - hanno scritto in un appello - chiediamo la fine immediata di questa violenza. Vogliamo essere l'esempio della reale possibilità di un processo di riconciliazione e della sua necessità per superare gli ostacoli che si oppongono a un futuro pacifico e sostenibile». Altra voce significativa è quella del rabbino Ron Kronish, direttore dell'Interreligious Coordinating Council in Israel (Icci). Anche le sue sono parole rese particolarmente forti dalla sua storia personale: nel marzo 2002 Kronish infatti si trovava in un bar di Gerusalemme quando entrò un attentatore suicida. Solo la prontezza di riflessi di un cameriere gli salvò la vita in quella occasione. «Mentre infuria la guerra nel Sud di Israele - ha scritto Kronish ai sostenitori dell'Icci - , speriamo con ansia che un cessate il fuoco sia annunciato oggi o domani, prima che ancora più vite siano perse da entrambe le parti e altri traumi fisici e psicologici creino ulteriori danni tanto ai palestinesi quanto agli israeliani. Nel frattempo – conclude il suo messaggio il rabbino Kronish - noi continuiamo dal basso il nostro lavoro per la costruzione della pace, continuando a riunire insieme ebrei, cristiani e musulmani nelle iniziative di dialogo e nei nostri programmi che coinvolgono giovani, donne, leader religiosi ed educatori. Alla fine la pace ci assicurerà più sicurezza della guerra e della violenza ricorrenti. Shalom». (Vatican insider)
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