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Silvia Romano, missionario Giulio Albanese: Qualcosa non torna nella conversione

SALVATORE CERNUZIO Ansa/Matteo Corner
Pubblicato il 13-05-2020

Il sacerdote e giornalista, esperto di Africa, commenta la vicenda della volontaria

«La conversione all’islam di Silvia Romano non mi convince fino in fondo, credo che sia prematuro parlare perché non è emersa tutta la verità». La lunga esperienza in Africa come missionario comboniano e come giornalista, direttore di importanti testate come l’agenzia Misna e la rivista Popoli e Missione, porta padre Giulio Albanese a dubitare che quella della giovane cooperante italiana, che ha cambiato il suo nome in Aisha, sia una adesione all’islam del tutto libera. «Nessuno può violare il foro interno di Silvia, la sua anima, credo che la ragazza porti dentro ferite che ancora forse non riesce a verbalizzare», spiega a Vatican Insider. «D’altro canto mi lascia perplesso il fatto che abbia deciso di abbracciare una fede nobile come quella islamica nel contesto di un’esperienza terribile con un movimento criminale, in assoluto il peggiore oggi sul mercato».

Silvia è stata quindi secondo lei costretta, benché la ragazza stessa assicuri il contrario?
«Intanto chiariamo: quando parliamo di conversione, parliamo di qualcosa che ha a che fare con la parte più intima dell’animo del credente. Da una parte, c’è l’adesione volontaria, dall’altra, c’è un dono divino. Nel caso di Silvia, tenendo conto del contesto in cui questa supposta conversione è avvenuta, ovvero l’esperienza a fianco a criminali e assassini come quelli di Al Shabaab, dico francamente che qualcosa sembra non tornare».

Cosa esattamente?
«Quello di Al Shabaab è un islamismo fanatico, estremista, associato alla continua violenza. Un islamismo in cui i seguaci puntano il fucile in testa: o ti converti, o ti ammazzo. Non è il vero islam che è quello rappresentato da grandi sufi, pensatori intellettuali, da persone che affermano che non si può uccidere in nome di Dio, come ribadito nello storico Documento sulla Fratellanza umana firmato dal Papa e dal Grande Imam ad Abu Dhabi. Perciò non è da escludere che questa conversione possa essere stata imposta dagli estremisti, anzi la darei quasi per scontata. Come può aderire una giovane donna ai precetti di una fede di cui ha conosciuto solo il volto violento? In ogni caso, credo che si debba essere prudenti e portare avanti un dibattito moderato perché sullo sfondo di tutta la vicenda c’è un dramma umano indicibile. Trascorrere nelle mani di aguzzini un tempo così lungo significa comunque aver sofferto».

Silvia dice di essere stata trattata bene e sembra che abbia deciso lei stessa di indossare il tanto discusso jilbab verde, nonostante l’Ambasciata italiana le avesse preparato abiti occidentali…
«Nel 99% dei casi quando i jihadisti rapiscono delle donne, queste - a prescindere se islamiche, animiste o cristiane - al momento del rilascio indossano il velo. È un copione già scritto. Ricordate le foto delle 276 studentesse di Chibok rapite da Boko Haram in Nigeria? Molte erano cristiane e gli è stata imposta la conversione. Forse ce ne siamo già dimenticati perché non erano europee. Il problema, nel caso di Silvia, non è il vestito».

E quale?
«Io, così come altri osservatori ed esperti, non siamo rimasti tanto convinti da quel sorriso mostrato all’aeroporto di Ciampino. Ho visto tante persone uscire fuori da esperienze di sequestro con le ossa rotte. Io stesso sono stato rapito nel 2002 nel nord dell’Uganda con altri due confratelli: il sequestro è durato “solo” 48 ore, ma in quel lasso di tempo siamo morti più volte, il trauma è andato via dopo anni».

Si parla di Sindrome di Stoccolma.
«Mah, può darsi. Mi sembra prematuro dirlo».

Come si spiega quindi la reazione emotiva della ragazza e le sue prime dichiarazioni?
«Intanto che lei sorrida nel rivedere i suoi cari mi sembra naturale. Il “sorriso” di cui parlo è metaforico, fa riferimento al modo in cui si è presentata dopo 18 mesi di prigionia, con grande disinvoltura rispetto all’esperienza vissuta, come si è espressa nei confronti dei jihadisti che l’hanno rapita, sottolineando che è stata trattata bene… Credo che le sarebbe stato più utile un silenzio prudente intorno a sé, per maturare quello che è successo».

Una polemica, una delle tante intorno a questa vicenda, è proprio quella della eccessiva esposizione mediatica.
«Tenendo conto della delicatezza della situazione forse sarebbe stato meglio trovare meccanismi di uscita meno mediatici. Stiamo pur sempre parlando di una donna per un anno e mezzo nelle mani di Al Shabaab che non sono certo ladri di galline, ma autori di crimini efferati come l’assalto all’università di Garissa, paragonabili per ferocia a Boko Haram in Nigeria»... (Vatican Insider)

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