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George Floyd, l'omaggio della polizia

Giuseppe Sarcina - Corriere della Sera web
Pubblicato il 02-06-2020

Proteste negli Usa, agenti in ginocchio di fronte ai dimostranti

E ora proviamo a guardare dall’altra parte della barricata.
Il capo della polizia di Minneapolis, l’afroamericano Medaria Arredondo, 55 anni, si inginocchia tra la 38 esima strada e la Chicago Avenue. Davanti alle foto, ai fiori, ai disegni, ai palloncini che sono già una sentenza: qui il 25 maggio George Floyd, un altro afroamericano è morto, schiacciato dal ginocchio dell’agente Derek Chauvin e con la complicità di altri tre uomini in divisa. A qualche chilometro di distanza il sergente S. ci accoglie con una smorfia. È di piantone al Primo Distretto di Polizia, il più centrale, non lontano da una delle sedi del governo, dove, al piano terra, c’è l’ufficio di Arredondo, una stanzetta piena di ritratti di poliziotti e di bandiere, con una grande vetrata che dà sul corridoio. Completamente deserto ieri.

«Che cosa vuole?» chiede sbrigativo il sergente, sbucando dall’interno di una fortezza costruita due giorni fa. Una lunga fila di blocchi di cemento, filo spinato e, nell’unico varco rimasto, il blindato color ocra della Guardia Nazionale, presidiato da due militari con il fucile automatico in posizione di tiro. «È il primo giornalista che vedo qui. È nel posto sbagliato. Non posso parlare, abbiamo ordini precisi. Si rivolga all’Ufficio relazioni pubbliche». Conosciamo la solfa: «call the office», telefonate a vuoto, oppure email per chiedere un’intervista. Risposta più o meno sollecita con un compitino prefabbricato. Non è questo che ci serve. Piano piano il nostro interlocutore si scioglie: «Avrei una grande voglia di parlare, di dire la verità. Non quella ufficiale, manipolata dai politici. Siamo presi in mezzo». Alla fine conversiamo per una ventina di minuti. Niente nomi, niente foto e, da qui in avanti, niente virgolettati. Il Sergente S. ha una sessantina d’anni, è nato e cresciuto a Minneapolis; è in servizio da oltre trent’anni e ora guadagna circa 100 mila dollari all’anno. Conosce il territorio, dunque. Sostiene che i poliziotti sono stati mandati allo sbaraglio nei primi giorni dai dirigenti politici che hanno sottovalutato il pericolo. Mentre questa, osserva, è una vera guerra contro gruppi organizzati e numerosi. Come quelli di Antifa, «gli antifascisti», formazione estremista che contempla anche l’uso della violenza non solo come forma di autodifesa, secondo la dottrina di Malcom X, ma anche come necessaria prevenzione. Quindi Donald Trump ha fatto bene, anzi benissimo, a dichiarare l’Antifa un’organizzazione terroristica.

Ma qual è «la verità» che verrebbe nascosta dai vertici politici? E cioè, si suppone, dal Governatore Tim Walz, dal sindaco Jacob Frey, tutti e due democratici? «No comment», sono le ultime parole del Sergente prima di muovere il braccio in modo inequivocabile: «Buona giornata». A venti minuti di auto, guidando verso sud, ecco il Quinto Distretto. Se possibile ancora più blindato. La strada è sbarrata nelle due direzioni. I militari della Guardia Nazionale sono numerosi. Non siamo distanti dal Terzo Distretto, sulla East Lake Street, dato alle fiamme dai manifestanti sei giorni fa. Pure qui il sottufficiale di servizio concede pochissimo. Ma spiega che per i poliziotti di Minneapolis «la verità» è contenuta nel referto medico diffuso dopo l’autopsia di George dall’Hennepin Countyi Medical Examiner. «Legga bene le tre righe sulle cause della morte. Non c’è il soffocamento». Nel rapporto, pubblicato il 29 maggio, è scritto: «L’effetto combinato tra l’immobilizzazione subita dal Signor Floyd da parte della polizia e le sue condizioni di salute precedenti e ogni potenziale intossicazione nel suo sistema hanno probabilmente contribuito alla sua morte». Una conclusione piuttosto ambigua. Tanto è vero che la famiglia di Floyd ha commissionato un’altra autopsia. I risultati sono arrivati ieri e contrastano con quelli della perizia ufficiale: «George è morto per asfissia, sotto il ginocchio del poliziotto Chauvin», ha riassunto l’avvocato Ben Crump, noto legale e attivista per la difesa dei diritti civili.

Tutto ciò significa che a Minneapolis il grosso della polizia cova una rabbia speculare a quella dei manifestanti. Ecco perché qui solo il capo, Arredondo, si è inginocchiato e si è tolto il cappello, rispondendo a una domanda di Terence Floyd, il fratello di George, posta da una giornalista della Cnn. «In questo caso il silenzio significa complicità», ha scandito, ripetendo che i quattro agenti coinvolti nella morte di Floyd sono da mettere «tutti sullo stesso piano».

Dal pestaggio di Rodney King a Minneapolis, trent’anni di violenza e rivolte negli Usa PrevNext 1991-92: le botte al tassista, gli agenti assolti e la guerra in strada Si prospetta uno dei processi più importanti degli ultimi anni. Keith Ellison, procuratore generale dello Stato, ha assunto la titolarità dell’inchiesta. Ellison è una figura conosciuta all’opinione pubblica degli Stati Uniti, poiché fu il primo musulmano eletto come deputato nel Congresso di Washington. La prima udienza di Chauvin, prevista per ieri, è stata ora fissata per l’8 giugno.Ma questa vicenda, ormai, non si può più circoscrivere all’ambito giudiziario. Nelle forze dell’ordine, sotto accusa nell’intera America, affiorano divisioni, segnali mai visti.

Domenica decine e decine di uomini e donne in divisa si sono inginocchiati davanti ai manifestanti. È accaduto a Coral Gables, in Florida; a Des Moines, in Iowa; a Spokane nello Stato di Washington. Ma non sappiamo se questo basterà a placare le proteste e, quindi, togliere ossigeno ai guastatori, agli antagonisti che entrano in azione con il buio.

Ieri è tornato a farsi sentire Barack Obama. In un lungo post pubblicato da Medium si schiera ancora una volta con le ragioni della protesta. Invita a isolare i violenti che danneggiano non solo le proprietà dei cittadini, ma anche la visibilità, la credibilità delle manifestazioni.Obama, poi, sollecita gli afroamericani a mobilitarsi, a scegliere con il voto i leader politici. «E’ importante capire quale livello di governo abbia l’impatto maggiore sul nostro sistema criminale e giudiziario...Non solo il Presidente e il Congresso. In realtà chi conta di più sono i livelli statali e locali, i Governatori e i sindaci, cioè coloro che nominano il capo della polizia».

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