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Fra Patton: la fraternità in Terra Santa parte dal dialogo

Giorgio Bernardelli Pixabay
Pubblicato il 14-10-2020

Il Papa invita ad educare alla fraternità

Un prisma attraverso cui osservare tutta la realtà. È come il poliedro, tanto caro a papa Francesco: la fraternità come chiave per affrontare tutti gli ambiti della vita personale e sociale, compresi la politica, l’economia, l’ecologia...».

Il Custode di Terra Santa fra Francesco Patton è l’attuale guida dei frati arrivati con san Francesco otto secoli fa, proprio nell’episodio citato fin dalle prime pagine dell’enciclica “Fratelli tutti”. Con lui proviamo a leggere da Gerusalemme l’attualità del testo che papa Francesco ha consegnato alla Chiesa e all’umanità intera. «Il sogno di fraternità – spiega il francescano minore Patton – era il sogno di Francesco d’Assisi.

Trovo straordinariamente attuale l’enfasi che il Papa pone sull’incontro con il sultano Malek al Kamel avvenuto nel 1219 proprio qui in Terra Santa, a Damietta. L’incontro più inclusivo: se io cristiano, in un tempo di scontro violento come durante la quinta crociata, vado dal musulmano disarmato e pensando che lui è un fratello, vuol dire che davvero ogni persona rientra in questa categoria».

Letta in Terra Santa, quale faccia del poliedro della fraternità vi interpella di più?

Sicuramente questo tema del dialogo. Il Papa richiama le indicazioni date da san Francesco nella Regola non bollata, quando dice a noi frati di non fare liti o dispute, di essere sudditi e soggetti a ogni umana creatura per amore Dio, confessando di essere cristiani. San Francesco ce lo ha affidato come metodo di presenza e di evangelizzazione: non saremmo rimasti qui per per otto secoli se avessimo utilizzato il metodo di contrapposizione che era il più in voga al tempo in cui lui venne in Terra Santa.

Oggi è un metodo da allargare: non solo nel rapporto con i musulmani, ma anche con gli ebrei. Così come a livello mondiale penso debba essere lo stile con cui entrare in relazione con gli uomini e le donne di qualsiasi altra religione e con chi non professa alcun credo.

E poi?

Il tema della memoria e del perdono. Proporre percorsi di riconciliazione qui è difficile, pensiamo al conflitto tra ebrei e palestinesi. A questo proposito il Papa nell’enciclica dice: il perdono non cancella la memoria di quanto è accaduto. Mi pare molto importante per il Medio Oriente: non si può pensare a processi in cui si chiede semplicemente a qualcuno di accettare la situazione, dimenticando ciò che è stato. Il Papa è chiaro: dice ad esempio che non si può dimenticare la Shoah o Hiroshima e Nagasaki. Però aggiunge che processi di riconciliazione sono possibili, separando il ricordo dai sentimenti di violenza che può portare con sé.

Citava all’inizio anche la fraternità con il creato.

Sì, in Terra Santa ne abbiamo particolarmente bisogno: non c’è molto una cultura ecologica e questo porta a trascurare un territorio che pure è molto bello oppure a sfruttarlo in modo sbagliato senza pensare alle prossime generazioni. Ma quella di “Fratelli tutti” non è l’ecologia della paura, del timore della catastrofe; è l’ecologia motivata dall’amore per quel fratello o quella sorella che vive nel creato accanto a me. Anche questo lo trovo particolarmente attuale.

Il Papa invita ad educare alla fraternità: è possibile oggi in Terra Santa?

Sì, è la sfida delle nostre scuole cristiane che sono luoghi di educazione alla cultura della fraternità e della pace. Sui banchi cristiani e musulmani stanno insieme per dodici anni, imparando a relazionarsi in un certo modo. Mi piace citarne in particolare una che si trova qui a Gerusalemme, la scuola del Magnificat, una scuola di musica che vede insieme ebrei, cristiani e musulmani. Lo trovo un segno molto bello di questo incontro fraterno possibile.

Quanto la pandemia sta mettendo alla prova la fraternità in Terra Santa?

È un’esperienza particolarmente dura, siamo già al secondolockdown. Però vediamo anche quanto sia vero che questa esperienza, pur toccando tutti, accentua le disparità. Israele ha il rapporto più alto di contagiati per numero di abitanti, ma anche un sistema sanitario che regge. Bastano pochi chilometri e in Palestina ci si trova in un contesto dove è più difficile far fronte alla pandemia. Ancora più a nord, in Siria o in Libano, è pioggia sul bagnato: in Siria il Coronavirus colpisce una popolazione provata da dieci anni di guerra e dalle sanzioni economiche; in Libano oggi non si arriva non dico alla fine del mese, ma nemmeno alla metà. Servirebbe una risposta fraterna: se per l’Europa è possibile un Recovery Fund, perché non pensare anche al Libano o ad altri Paesi in una crisi economica gravissima?

Un piano di aiuti della comunità interazionale che non sia un prestito ad usura, ma permetta di ripartire. Sarebbe nell’interesse di tutti. (Avvenire)

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