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America: in ginocchio da Dio

Maurizio Crippa - Il Foglio ANSA/DEAN LEWINS
Pubblicato il 06-06-2020

L’America è scossa da una guerra di simboli che è alla radice stessa della sua storia religiosa e politica

Uomini in ginocchio che pregano e uomini che premono il ginocchio su un uomo a terra. Uomini che cantano inni e l’uomo che dovrebbe essere la loro guida che chiama l’esercito, agita la Bibbia come fosse il Libretto rosso di Mao facendo imbufalire il vescovo cattolico e la sua collega episcopale di Washington. Mai come in questi giorni una guerra di simboli sta squassando l’America in quel che ha di più caro, il suo sentirsi “one nation under God”. Una guerra di religione americana. “Inginocchiarsi ha il potere di placare l’ira di Dio e di evocare la sua misericordia”, dice sant’Ambrogio ne I sei giorni della Creazione. E’ probabile che quasi nessuno, negli Stati Uniti, conosca il vescovo padre della chiesa d’occidente. Neppure i californiani che da giorni protestano contro la University of California di Los Angeles, davanti alla facciata che è una riproduzione fedele della basilica del santo a Milano. Protestano perché il LAPD ha avuto l’infelice idea di usare lo stadio di baseball della Ucla come centro di detenzione dei dimostranti fermati durante le proteste di Black Lives Matter. Ma lo stadio porta il nome di Jackie Robinson, il primo afroamericano a giocare nella Major league, e “la riluttanza della Ucla a condannare l’azione della polizia fa del male agli studenti neri”, ha scritto il Los Angeles Times in un editoriale. Con Ambrogio chiudiamo qui. Perché questa storia di simboli religiosi, la Bibbia e il ginocchio piegato, è tutta americana. I poliziotti, i manifestanti, le persone comuni, i vip che fanno “take a knee” sanno che quel gesto, diventato segno di uno scontro non solo politico, è un gesto religioso. Portato nella storia dell’occidente dalla religione giudaicocristiana. Per greci e romani era invece un’ignominia. Non sono stati loro i primi, dopo la morte di George Floyd, a usare quel gesto per indicare una implacabile divisione. Fu il quarterback dei San Francisco 49ers, Colin Kaepernick, a mettere il ginocchio a terra prima di una gara, durante l’inno nazionale: “Non intendo mostrare rispetto alla bandiera di un paese che opprime neri e minoranze etniche”. Contro l’America first e bianca di Donald Trump.

Non era stato il primo nemmeno lui. Ma il pugno nel guanto nero delle Black Panthers di Tommie Smith e John Carlos a Mexico ’68 rimandava a una guerra tutta politica e violenta. Anche Chris Jackson, stella dei Denver Nuggets, nel 1996 non si alzò dalla panchina: “Non intendo mostrare rispetto a un simbolo di oppressione e tirannia come la bandiera degli Stati Uniti”, disse. Poi cambiò religione e diventò Mahmoud Abdul-Rauf. Come aveva cambiato religione Muhammad Ali. Perché per combattere l’ingiustizia razziale, “il peccato originale che macchia l’America”, come l’ha chiamato Joe Biden, sembrava fatale dover abbandonare anche la religione dell’America. Ma nel take a knee di Kaepernick forse, misteriosamente, aleggiava già un senso diverso. Quello di una preghiera e di una domanda posta al cuore della religione. Da un lato un sentimento di pietas che invoca la giustizia di Dio, dall’altro la Bibbia sventolata – la Bibbia che secondo Reagan è “il libro dove ci sono tutte le risposte” – ma anche le croci che nel Sud e nei siti della alt-right hanno ricominciato a significare minaccia e suprematismo.

E’ la radice stessa del protestantesimo americano, che nasce calvinista come una “Re - deemer Nation” e ha i suoi due pilastri nella libera interpretazione della Scrittura e nella totale dipendenza da Dio. Fiduciosa o minacciosa. Il problema è che uno scontro così non si vedeva da immemorabile tempo. La religione americana, l’America come grande nazione sotto la Legge di Dio, è ed è da sempre la casa di tutti gli uomini liberi che ricercano la loro felicità. Ovviamente con delimitazioni e circostanze che rendono l’ambizione meno assoluta. Del resto nella colonia che Tocqueville considerava il prototipo della democrazia americana, il Massachusetts, vigevano discriminazioni teocratiche contro cattolici, ebrei e quaccheri come non ne esistevano nemmeno in Spagna. Le leggi prevedevano la condanna a morte per i preti cattolici sorpresi a tornare nel territorio dopo esserne stati cacciati. Ma nella sua forma più nobile, che è sempre stata l’essenza del protestantesimo americano, l’America è la promessa della “city upon a hill”. E ha continuato ad esserlo ancor più nella forma di quel “protestantesimo secolarizzato” che è la radice dell’american way of life. Per dirla con Eisenhower, la nazione che ha “per fondamento la religione; non importa quale religione”.

Ma è accaduto qualcosa, che riguarda tutti anche nel resto del mondo. Sotto la guida spericolata al limite del blasfemo di Donald Trump, il suo soffiare su una destra religiosa sempre più arrabbiata, impaurita, suprematista c’è un mutamento che affonda nell’origine: il luogo deputato dei peccati. In fondo l’Ameri - ca dei Padri del Mayflower nasce da uno scisma. Il pastore puritano John Robinson guidava una conventicola di “non - conformisti” che non avevano accettato l’Atto di supremazia di Elisabetta I, erano fuggiti in Olanda e poi finalmente, nel 1620, verso la terra promessa per poter vivere senza sottomettersi alla monarchia- chiesa d’Inghilterra. Poi arrivarono gli anabattisti, e i quaccheri a fondare Filadelfia, ognuno in fuga da un proprio scisma ribelle. E in fondo anche l’altro peccato originale dell’America, lo schiavismo, fu sanato al sanguinoso prezzo di una guerra che fu, ancora una volta, anche uno scisma religioso. I primi a predicare l’abolizionismo in nome di Dio furono gli anarcoidi anabattisti. I quaccheri, i fondatori della Città dell’Amore Fraterno che molti decenni dopo furono i protagonisti del movimento antischiavista, diventarono abolizionisti solo dopo il Grande Risveglio che scosse e rivitalizzò le chiese americane nella prima metà del Settecento. Prima, erano stati tranquillamente padroni di schiavi e la loro comunità fu tormentata da predicatori visionari come Benjamin Lay, autore nel 1737 di un libro che suonava come una condanna di Dio: All Slave-keepers that keep the innocent in bondage. Apostates. La divisione spaccò le comunità, e la radice del contendere stava proprio nell’interpretazione letterale delle Scritture. Harriet Beecher Stowe, l’autrice della Capanna dello zio Tom, era figlia di un pastore calvinista del Sud. Ma era del Sud anche il vescovo episcopale Leonidas Polk, possessore di schiavi, che durante la guerra di Secessione si tolse la tonaca e divenne generale confederato. Il problema era come leggere la Bibbia, a proposito della schiavitù. E non si poteva mettersi d’ac - cordo. Proprio quella Bibbia di Lincoln, una edizione di Oxford della Bibbia di Re Giacomo, su cui hanno giurato Barack Obama e Trump. Ora quella storia sembra riemergere. Ben oltre la Bible belt, una sorta di cicatrice profonda che segna il confine degli stati del Sud, dove sono forti le “chiese nere”, la Southern Baptist Convention (pastore battista era Martin Luther King) e le congregazioni pentecostali. Ma dove i cappucci e le croci del Klan hanno ricominciato a comparire, assieme alle armi della destra suprematista. Eppure la storia americana non è una storia di guerre di religione e l’America non è il luogo soltanto di una religione arcigna, da gotico americano. E’ la storia di una nazione che ha messo nella sua Costituzione la separazione tra lo stato e la religione, quasi per proteggerne di più la libertà. Ed è diventata quello che già a metà del Novecento Reinhold Neibuhr, uno dei maggiori teologi protestanti degli Stati Uniti, definiva “al contempo la più religiosa e la più secolarizzata delle nazioni occidentali”.

Un grande storico della religione americana, Mark Noll, si chiedeva che cosa Lutero potrebbe ancora riconoscere di suo nel protestantesimo americano odierno. Soltanto due cose: la centralità assoluta della Bibbia e il primato della coscienza individuale. Due cardini che da sempre reggono la “civil religion” americana. Nel suo fondamentale imprinting calvinista, nella religione civile americana è sempre rimasta chiara l’idea di un compito da realizzare: se non la giustizia sulla terra, una società che avesse le migliori condizioni per il benessere e per la salvezza. Perché i diritti dell’uomo non provengono anzitutto dallo stato e dalle mani dell’uomo, ma dalle mani di Dio. Tutti i presidenti che giurano sulla Bibbia sono sempre stati i presidenti di tutti. Accomunati da quell’unica religione, quale che fosse la denominazione o l’intensità. Era un fervente battista liberal Jimmy Carter.

George W. Bush, che adesso dice su Trump e i diritti le stesse cose che avrebbe potuto dire il cattolico Kennedy, è membro “rinato” della chiesa metodista, come Hillary Clinton (Bill è battista), anche se uno siede nelle panche più conservatrici del protestantesimo e l’altra in quelle dei più progressisti. Obama, dal percorso più accidentato, prese per tempo le distanze dalla United Trinity Church del reverendo Wright, un populista religioso nero, per quietarsi in una religiosità più mainstream. Si potrebbe dire che l’America è uno stato federale, e dunque ha un Dio federale. Un Dio non per mandato divino, ma per mandato popolare, perché è il popolo stesso a riconoscersi sotto “il suo Dio”. Una grande nazione sotto la federazione stellata di Dio. Questa fede è da sempre il propellente delle dinamiche sociali e politiche. Ma persino un presidente pio e belligerante come Bush (David Frum, suo ex speechwriter, raccontava divertito che le prime parole che il presidente gli rivolse alla Casa Bianca furono: “Missed you at Bible Study”, hai bigiato l’incontro sulla Bibbia), sapeva tenere ben distinto l’aspet - to religioso dalla politica. E dopo l’11 settembre si affrettò a dire con grande chiarezza ai musulmani americani: “Noi rispettiamo la vostra fede. Essa è praticata liberamente da svariati milioni di americani e da molti altri milioni di persone in paesi che l’America considera amici”.

Da propellente a strumento di odio, le cose cambiano. La storia del mutamento intervenuto negli ultimi decenni nel protestantesimo federale statunitense è lunga e complessa. E’ l’evapora - zione culturale e percentuale delle chiese wasp. E’ la grande esplosione delle denominazioni pentecostali, calde e integraliste, aggregative per la popolazione più povera e rurale. E della Southern Baptist Convention, di cui faceva parte Billy Graham, prototipo dei telepredicatori e consigliere ascoltato di molti presidenti. E’ la crescita delle chiese evangeliche, spesso di destra, ma non sempre: ogni chiesa ha al suo interno divisioni anche profonde tra liberal e conservatori.E’ anche la storia, inversa, di una aggressione secolarizzatrice che dagli anni Sessanta si impegna a smantellare i valori dell’american way of life, fino alle degenerazioni a un passo dal totalitarismo oggi dominanti nelle università e pervasive nei media. Ed è la storia della reazione contraria, che attraverso le esperienze delle culture war e dei Tea party è divenuta sempre più territorio della destra religiosa e oltranzista, grazie anche a un uso strumentale della politica. Ma è soprattutto con Trump e con le campagne dell’altright orchestrate negli anni da ideologi come Steve Bannon che il panorama è cambiato. Che si è cementata quella union sacrée di uomini bianchi lasciati indietro, di rifiuto dell’immigrazione e del melting pot, di complotti globalisti da sventare, di valori tradizionali impugnati come armi da guerra e bandiere per segnare confini. Radicalizzandosi in uno scontro dove sembra smarrirsi la nazione sotto un unico Dio. Così questione religiosa e questione razziale si sono infiammate, è riapparso (e le subculture del web hanno fertilizzato) il suprematismo, in una situazione che rischia di uscire di controllo. E non è solo un problema degli Stati Uniti. Se è vero che la radicalizzazione è riuscita nell’intento di riunire –nel paese e a livello internazionale – due fronti che non si erano mai amati: il tradizionalismo cattolico e l’evangelismo fondamentalista. Una dinamica che padre Antonio Spadaro e il pastore presbiteriano Marcelo Figueroa, in un recente saggio della Civiltà cattolica che ha destato clamore, hanno ben descritto, ragionando su quell’“ecumenismo dell’odio” di cui aveva parlato Papa Francesco. Forse era meglio l’oppio dei popoli, almeno rilassa i nervi.

Il tutto sotto una guida pericolosa. Bush, un “born again christian”, era un presidente religioso. E nei giorni scorsi ha scritto che “le risposte ai problemi americani si trovano nel rispetto degli ideali americani, nel rispetto della verità essenziale che tutti gli uomini sono stati creati uguali e dotati da Dio di certi diritti”. Trump può darsi in cuor suo non sia ateo, ma nel trattare pubblicamente la materia è un esibizionista blasfemo e opportunista. Un rabdomante che sa evocare il peggio dei démoni a lungo tenuti a bada e farne per di più una rete internazionale. Attraverso un filo rosso che unisce l’America great again al Brasile dell’evangelico Bolsonaro. Ma che è un riferimento anche per l’Europa sovranista armata di rosari, Madonne di Fatima e fili spinati degli Orbán, delle Le Pen, dei Salvini e delle Meloni. Leader che puntano al risultato – e sarebbe davvero epocale se lo ottenessero – di trasformare il cristianesimo (di tutte le confessioni) da fattore positivo nella costruzione di società più giuste, aperte e persino valoriali in una religione identitaria, della paura e della chiusura. Fino ai legami ideologici con le frange suprematiste. Il manifesto di Brenton Harrison Tarrant, l’attenta - tore di Christchurch in Nuova Zelanda, è lì da leggere come un testo di scuola. Ma l’America della religione civile non è mai stata questo, se non in alcuni momenti particolarmente bui. E un presidente che ne usa una parte “non per unire ma per dividere la nazione”, come ha detto persino il suo ex capo del Pentagono “Cane Pazzo” Mattis, è un fatto inedito. L’America dello scisma tra Bibbia sventolata e ginocchia piegate oggi riflette su tutto questo. In altri momenti della storia ha trovato la strada giusta. Michael Cimino, con intuizione acuta, scelse di ambientare Il cacciatore in una comunità di immigrati russi, di fede ortodossa, bianchi “lasciati indietro” in un’acciaieria della Pennsylvania e poi spezzati da una guerra non loro, là in Vietnam, che aveva strappato le loro vite, le loro anime, ucciso gli amici e distrutto il loro futuro. Nel finale, i protagonisti sono riuniti insieme e cantano l’inno più americano di tutti, nella versione più struggente del cinema americano. Cantano tra le lacrime, ma cantano: “God bless America”.

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