cronaca

Un mese fa il terremoto in Turchia e Siria

Andrea Cova
Pubblicato il 08-03-2023

Luca Cari e Massimiliano Porcu dei Vigili del Fuoco raccontano la loro esperienza

 

Il 6 febbraio scorso la terra ha tremato tra la Turchia meridionale e la Siria settentrionale. Un terremoto di magnitudo 7.9 che ha coinvolto 24 milioni di persone e oltre 40 mila morti: una tragedia assoluta che ha visto attivarsi immediatamente gli aiuti internazionali, tra cui l’Italia con la Protezione Civile e i Vigili del Fuoco che, su mandato dell’ONU, hanno coordinato inoltre i team USAR che hanno operato ad Antiochia. USAR sta per Urban Search And Rescue, ovvero squadre del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco addestrate per affrontare operazioni di soccorso tra le macerie, a seguito eventi sismici, esplosioni, crolli o dissesti statici e idrogeologici. Le abbiamo viste in azione durante il terremoto dell'Aquila, ad Amatrice, l'alluvione di Ischia e altri momenti tragici. Luca Cari, capo comunicazione Vigili del Fuoco, e Massimiliano Porcu, caposquadra dei Vigili del Fuoco ed esperto e istruttore USAR medium, ci hanno raccontato la loro esperienza precisando: «Non chiamateci eroi»

 

LUCA CARI

 

Luca, che situazione avete trovato ad Antiochia?

Solitamente lo scenario in cui andranno a lavorare non spaventa i Vigili del Fuoco, perché è sempre lo stesso, non cambia: ad Antiochia non è stato diverso da Amatrice, l’Aquila o tre anni fa in Albania. Cambia il tipo di crollo ma le scene sono sempre devastanti e l’obiettivo in testa resta quello di salvare le persone. In Italia dopo qualche ora dall’evento si riesce ad essere subito operativi. Per i Paesi esteri è necessario un po’ più di tempo: il Paese interessato dovrà accettare l’aiuto proposto e far sapere di cosa ha bisogno. Arrivati ad Antiochia, in Turchia, ci siamo trovati davanti ad uno scenario che non avevamo mai visto, pur avendo fatto numerosi interventi, come dicevo, a seguito di terremoti. La distruzione era totale, anche i palazzi che non erano crollati si vedevano gravemente lesionati. Edifici di sei o sette piani che sono collassati su se stessi, “a pancake”, altri col piano terra evidentemente vuoto, quindi più leggero, si sono adagiati su un fianco, altri ancora del tutto sbriciolati. C’era gente in strada che continuava a restare davanti alle proprie case distrutte, dove evidentemente avevano anche i propri cari dispersi. Stavano lì giorno e notte. Il nostro insediamento poi non è stato semplice. Dall’Italia abbiamo portato molta attrezzatura, ma ci sono cose che devi necessariamente reperire sul posto, come l’acqua e il carburante. L’acqua non c’era e quindi siamo stati alcuni giorni senza, con tutto quello che ne comporta sia in termini di igiene personale che di cucina, fino a quando i pompieri locali l’hanno portata. Abbiamo le tende riscaldate con apparecchiature alimentate a gasolio, ma quello che ci avevano dato era sporco e quindi i riscaldamenti andavano in blocco. Abbiamo dormito in tenda a -5, -7 gradi e non è facile. Ci hanno assegnato una palazzina dove lavorare, anche quella crollata “a pancake”, quindi con i solai schiacciati l’uno sull’altro, da cui, dopo un intervento di nove ore, abbiamo estratto un ragazzo ancora in vita. Purtroppo c’erano anche molti cadaveri, tra cui bambini tra i quattro e i nove anni.

 

 

Come si può sopravvivere tanti giorni sotto le macerie?

Dal punto di vista medico non so rispondere. Tecnicamente, a volte, i blocchi di cemento armato che crollano si incastrano in un modo per cui restano spazi vuoti, consentendo di sopravvivere. Ho visto neonati che hanno resistito anche una settimana senza mangiare e senza bere, quindi anche fisicamente c’è una certa resistenza. All’Aquila salvammo una ragazza, Eleonora, dopo 72 ore dal crollo.

 

Scenari di distruzione sono il luogo di lavoro per un vigile del fuoco. Ci si abitua mai veramente a tutto questo?

No, non ci si abitua mai. Chi ha scavato, chi ha recuperato i morti, adesso impiegherà del tempo per rimettere le cose a posto dal punto di vista emotivo e psicologico, perché impatti con un aspetto della vita che non è contemplato. Ci si mette un po’ a ritrovare un equilibrio. Ad esempio ci ho messo un mese per uscire dalla tragedia di Ischia, che mi è pesata molto. Bisogna sempre mantenere un distacco emotivo, evitare di associare, magari, la persona che stai salvando ad un tuo familiare. Un supporto psicologico è sempre attivo, ma molta tensione si scarica all’interno della squadra, che ha condiviso con te la stessa esperienza, e parlando puoi esorcizzare il vissuto. Di sicuro non va portato a casa o almeno non del tutto. In queste situazioni ti scontri con la durezza della vita e ti interroghi sul senso di questa. Ad Antiochia man mano che si scavava venivano fuori tanti giocattoli: fino a qualche ora prima c’era un bambino che ci stava giocando. Oppure i resti di una cucina che ti fanno pensare che prima c’era una vita, come la tua, e che in un attimo è stata distrutta e non c’è più. Una sorta di corazza il pompiere se la crea, è inevitabile, ma arriva sempre il momento in cui deve ricostruire le idee, i pensieri e le convinzioni. Prima di partire per una missione già sa che questo arriverà, e allora deve avere principi forti, perché saranno continuamente messi a dura prova. Se chiudi gli occhi rivedi tutte le immagini di quei momenti, ma chi fa questo lavoro deve essere capace di collocare certi ricordi in un punto in cui non diano fastidio, anche per evitare il burnout.

 

È difficile immaginare ciò che racconti.

Non si tratta solo di morte, con quella ci facciamo i conti tutti, ma la modalità: tutto avviene in un attimo. Una riflessione tutto ciò la suscita.

 

Come si prepara un vigile del fuoco?

Sono anni di addestramento e sudore in vista del momento in cui si troverà ad essere l’ultima mano tesa a quel poveraccio intrappolato sotto le macerie. Se si perde quella stretta non ce ne sarà un’altra a tirarto fuori, perché se non ce la fanno i pompieri è finita. Riescono a salvare le persone perché sanno quello che devono fare e hanno l’attrezzatura per farlo. Il vigile del fuoco non è un eroe ma un essere umano che lavora, suda, fatica, apprende e può diventare un esempio, ma non è nato supereroe. Conosciamo tutti la canzoncina che fa: “Il pompiere paura non ne ha”, ovviamente non è vero. Quando sono tra blocchi di cemento crollati e arrivavano scosse continue hanno paura, come si può pensare che non ne abbiano? Però hanno lo scopo di salvare un’altra vita umana che li manda avanti. Ripeto, i Vigili del Fuoco sono esseri umani con paure, gioie e pensieri.

 

 

MASSIMILIANO PORCU

 

Massimiliano, sappiamo che hai partecipato al salvataggio di un giovane rimasto sotto le macerie di una palazzina ad Antiochia.

L’operazione è stata lunga. Coordinavo la squadra che lavorava per liberare questo ragazzo di ventidue anni bloccato sotto le macerie. Lui era nel letto e un solaio di cemento gli intrappolava le gambe, che purtroppo erano messe molto male. La sua fortuna è stata che il termosifone della parete davanti al letto ha fatto da spessore evitandogli lo schiacciamento del torace, lasciando le funzioni vitali inalterate. Il ragazzo è stato comunque sotto quelle lastre per circa cinquanta ore al freddo, perché di notte le escursioni termiche in quelle zone sono molto importanti. Come ho detto, l’intervento è stato molto lungo, circa nove ore, e con noi c’erano i sanitari del 118 Toscana, la dottoressa Montemarani e l’infermiere Samuele Pacchi, in modo da potergli prestare il primo soccorso medico, mentre noi Vigili del Fuoco potevamo occuparci unicamente delle macerie.

 

Come si affrontano nove ore di salvataggio?

Per quanto mi riguarda si vivono con un’energia che ti viene da qualcosa di inspiegabile. Alle spalle di quelle nove ore avevamo tutta l’attività di montaggio del campo, quindi la preparazione che ha previsto il carico e lo scarico dell’aeromobile e l’individuazione di una zona di logistica. Erano due giorni che non dormivamo. È chiaro che di fronte alla possibilità di portare a casa un risultato grandissimo, la rinascita di una persona, trovi delle energie riposte in una parte del corpo che non conosci. Quindi sono state ore vissute con frenesia e con quella giusta dose di paura che ti porta a prestare attenzione alle scelte da compiere.

 

 

Nel momento del primo contatto con questa persona che emozioni hai provato? E il ragazzo?

Ad un primo contatto mi sembrava deceduto, perché aveva solo la testa e un braccio fuori, era molto pallido. Mi sono avvicinato e l’ho chiamato ma non ha risposto, poi si è girato e ha cominciato a piangere: è stato emozionante. Ho cercato di rassicurarlo, spiegandogli che eravamo lì per lui e che l’avremmo tirato fuori in qualche modo. Avevo paura di perderlo in qualsiasi momento. La sindrome da schiacciamento è detta anche “la morte col sorriso”, perché le condizioni cliniche cambiano improvvisamente, passando dalla lucidità allo shock. Un salvataggio del genere impone lunghi tempi di lavorazione: si deve demolire sopra una persona e vanno compiute delle scelte bilanciate tra il rischio personale, quello della vittima e la velocità per la sopravvivenza della persona coinvolta. Durante il salvataggio si è creato un rapporto speciale con questo ragazzo. Lui cercava un contatto con noi e noi con lui. Avevo anche deciso che intorno a noi sul solaio di copertura ci fossero i suoi parenti. Di solito non lo facciamo ma era importante per la lingua e affinché percepisse la vicinanza di suo fratello e degli amici. Era un modo per infondergli speranza, forza e coraggio. Con noi e soprattutto con la dottoressa aveva instaurato un legame quasi intimo. La cercava continuamente. Pur essendo completamente schiacciato – aveva addosso tonnellate di materiale – non aveva perso la forza. Chiedeva di mangiare qualcosa, che con l’autorizzazione della dottoressa siamo riusciti a dargli. È emozionante anche ricordare certi momenti. Quando alla fine lo abbiamo liberato aveva le gambe veramente messe male e la dottoressa ha optato per somministrargli farmaci che lo potessero sedare in qualche modo. Nonostante questo mentre lo movimentavamo – abbiamo dovuto tirarlo su praticamente da un pozzo, perché poi questo era diventato lo scenario – aveva dei dolori fortissimi, continuava a svenire, ma con le mani si agguantava e si tirava su con tutta la forza nonostante il dolore lancinante. La voglia di uscire e di ritornare a vivere era più forte di tutto. La prima cosa che mi è venuta da fare è stata abbracciare gli altri e piangere. Ero sopraffatto dall’emozione. Di questo ragazzo posso solo immaginare le emozioni di quelle notti passate al freddo con dolori lancinanti. Certe volte mi viene da pensare come la mente umana riesca a “rimodularsi” in tutte le situazioni e riesca a ritrovare un equilibrio, anche in situazioni in cui penseresti di impazzire.

 

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