cronaca

Le scuse di chi ha indagato al prete scagionato dopo 27 anni

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

«Devo presentarmi con l’avvocato...?». «Non ce n’è bisogno, don Antonio, la chiamiamo per chiederle scusa...». La conversazione telefonica, riportata da una fonte vicina alla Procura di Milano risale a qualche mese fa e segna la liberazione da un peso che don Antonio Costabile si è portato addosso per ben 27 anni. A quella chiamata ha fatto seguito la certezza che la procuratrice generale Carmen Manfredda avrebbe chiesto per il religioso l’archiviazione per l’omicidio di Lidia Macchi, la studentessa di Varese uccisa nel 1987, amica di don Antonio. Il quale, fino a due giorni fa, è sempre stato formalmente indagato per quel delitto. Adesso gli inquirenti accusano dell’assassinio Giuseppe Piccolomo, un balordo che sta già scontando l’ergastolo per l’omicidio di un’anziana a cui avrebbe anche tagliato di netto le mani e il cui identikit corrisponde in maniera impressionante a quello di uno sconosciuto che aggrediva le donne nel parcheggio dell’ospedale di Cittiglio (Varese). Che è anche l’ultimo luogo in cui Lidia è stata vista viva con sicurezza.


La fede lo ha sostenuto

Come sono trascorsi questi 27 anni per l’uomo di Chiesa? La fede non è venuta meno, innanzitutto, e oggi don Costabile, 57 anni, lavora come responsabile della catechesi per la Curia di Milano. Alle spalle ha un lungo e tormentato percorso che lo costrinse all’allontanamento da Varese pochi anni dopo la morte di Lidia, vedendolo prima impegnato in una missione in Uganda, poi nell’attività pastorale nell’hinterland milanese e infine nell’incarico dirigenziale all’ombra della Madonnina. Segno che la fiducia nei suoi confronti da parte della diocesi ambrosiana non è mai venuta meno. 
«Non vogliamo commentare quanto avvenuto e nemmeno don Antonio vuole parlare» così le fonti ufficiali della Curia respingono con serena risolutezza i tentativi di avvicinare l’ex indagato. «Ringrazio dell’attenzione ma non ho nulla da dichiarare» ribadisce il prete, raggiunto telefonicamente in serata. Don Antonio, dunque , si chiama fuori, come ha sempre fatto in tutti questi anni in cui non ha mai parlato dello scandalo che lo ha investito.




Fu il primo ad arrivare sul posto

E dunque, come ci entra il sacerdote in questa torbida storia? Ci entra nel più doloroso dei modi: la mattina del 7 gennaio ‘87, quando il cadavere di Lidia viene trovato all’interno della sua Fiat Panda in un bosco di Cittiglio, don Antonio è tra i primi a giungere sul posto; una foto in bianco e nero dell’epoca lo ritrae mentre si avvicina a quell’auto diventata una bara, per benedire il corpo della ragazza. Lui la conosceva bene; la seguiva da anni in quanto lei faceva parte degli scout e di Comunione e liberazione. 
Le indagini scandagliano con decisione la cerchia delle amicizie e delle frequentazioni di Lidia ed è qui che il testimone commette il passo (falso?) che gli costerà 27 anni di sospetti. Gli chiedono dove si trovasse la sera della scomparsa di Lidia, don Antonio afferma di aver partecipato a una riunione con altri sacerdoti, i quali però non ne rammentano la presenza. Una banale confusione? Il tentativo di coprire qualcosa o qualcuno? Gli inquirenti di Varese propendono per la seconda ipotesi e puntano sul delitto maturato nell’ambito di una relazione tra il prete e la ragazza. Non gioca a favore del religioso una frase rinvenuta nel diario di Lidia in cui si fa cenno a un misterioso «amore impossibile» che la tormentava. Del caso si interessa anche una trasmissione tv dell’epoca, condotta da Enzo Tortora, che propone quella che appare la soluzione del mistero: il test del Dna, un metodo d’indagine di cui si comincia a parlare e che solo un laboratorio inglese è in grado di eseguire. Un campione biologico di don Costabile viene inviato Oltremanica, messo a confronto con le tracce lasciate dall’assassino sul cadavere della vittima ma dall’Inghilterra arriva una «non risposta»: il materiale biologico del killer è troppo deteriorato, il confronto è impossibile. 
Da allora le indagini sul caso si arenano, don Antonio resta indiziato dell’omicidio, diviene bersaglio dei sospetti e delle maldicenze. Per 27 lunghi anni, fino alla telefonata di scuse da parte degli inquirenti di Milano. 

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