cronaca

Borrometi: Peppe Diana, profeta di legalità e civiltà

Francesco Bastianini
Pubblicato il 19-03-2021

Ventisette anni fa veniva ammazzato il prete di Casal di Principe

Il 19 marzo del 1994, don Peppe Diana, sacerdote impegnato contro la camorra, viene ucciso con cinque colpi di pistola. L'omicidio fa scalpore in tutta Italia, e in tutta Europa, per la sua brutalità. Un messaggio di cordoglio è pronunciato da san Giovanni Paolo II durante l'Angelus del 20 marzo 1994: Sento il bisogno di esprimere ancora una volta il vivo dolore in me suscitato dalla notizia dell’uccisione di don Giuseppe Diana, parroco della diocesi di Aversa, colpito da spietati assassini mentre si preparava a celebrare la santa messa. Nel deplorare questo nuovo efferato crimine, vi invito a unirvi a me nella preghiera di suffragio per l’anima del generoso sacerdote, impegnato nel servizio pastorale alla sua gente. Voglia il Signore far sì che il sacrificio di questo suo ministro, evangelico chicco di grano caduto nella terra, produca frutti di piena conversione, di operosa concordia, di solidarietà e di pace. In occasione dell’anniversario della morte, parliamo di don Peppe con Paolo Borrometi, vicedirettore Agi e presidente di Articolo 21. Giornalista sotto scorta dall'agosto del 2014 a causa di minacce e aggressioni subite a seguito di alcune inchieste giornalistiche nel ragusano e nel siracusano. «Ogni tanto un murticeddu vedi che serve. Per dare una calmata a tutti». Con queste parole Cosa Nostra dà l’ordine di uccidere il giornalista che fa inchieste sui loro affari.

“È oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi”. Sembra un messaggio attuale, soprattutto in tempo di pandemia, nonostante siano dichiarazioni fatte quasi 30 anni fa…

Nel nostro Paese abbiamo uomini che hanno rappresentato qualcosa in più nel loro passaggio terreno, uno fra questi è sicuramente don Peppe Diana. Se togliessimo la data e la firma, questa dichiarazione potrebbe essere stata pronunciata in questi giorni da qualsiasi persona di buonsenso e che ragiona. Oggi le mafie sono ancora potentissime, riescono ad infiltrarsi in tutti i gangli del Paese, soprattutto economico-imprenditoriali. Per queste organizzazioni la pandemia è una straordinaria opportunità. La magistratura recentemente ha messo in luce come stiano cercando di colmare quel vuoto lasciato dallo Stato per quanto riguarda il welfare. I mafiosi si trasformano in “agnellini benefattori” per ottenere consenso, ma questa “solidarietà” non è mai gratuita. Affidarsi alle mafie significa rovinarsi la vita. Per gli imprenditori, ad esempio, accettare un prestito porta a perdere per intero la propria attività. Vuol dire consegnarsi mani e piedi a persone senza scrupoli che, anche se a volte indossano una veste pulita, hanno in realtà la stessa torbida anima. Le solite mani sporche di sangue.

Don Peppe è stato uno dei primi parroci a ribellarsi allo strapotere mafioso, portando tra le strade di Casal di Principe la cultura della legalità, eppure in molti hanno provato ad infangare la sua memoria.

Credo che la prima cosa che si deve fare oggi, e lo dico da giornalista, è quella di chiedere scusa a don Peppe Diana. Questo perché in molti, soprattutto fra i giornalisti, hanno cercato di screditarlo non solo quando era in vita, ma addirittura da morto. Dopo il suo martirio ricordo un titolo a nove colonne, in uno dei più importanti giornali, che recitava “Don Diana camorrista”. Questa è una ferita non solo per il mondo del giornalismo, ma anche per quello della società in generale, che dobbiamo sanare con delle scuse. 

Il giornalismo oggi ha sviluppato gli “anticorpi” per contrastare il fenomeno mafioso?

Ho sempre paura quando sento parlare di “anticorpi”. Il giornalismo italiano non so quanti passi avanti abbia fatto. Da un lato vedo ancora giornalisti che non sono all’altezza dei soggetti di cui parlano, dall’altro vedo tanti colleghi e colleghe nelle periferie che hanno la forza e svolgono un grande lavoro, incarnando lo spirito dell’articolo 21 della Costituzione. 

I mafiosi in Italia hanno sempre cercato di appropriarsi della religione e dei suoi simboli per usarli a proprio vantaggio. Don Peppe ha cercato di ostracizzarli con manifestazioni e documenti, tra i più noti: “Per amore del mio popolo io non tacerò”. Qualcuno lo ha definito un “testimone d’amore”...

Don Peppe Diana è stato ed è, con il suo esempio, un profeta di legalità e civiltà. Ci ha insegnato ad essere cittadini autentici, reali, con la schiena dritta. Un vero uomo di fede. La sua è un’eredità importante, fondamentale, ingombrante. Tutti noi dovremmo ringraziarlo. Penso che Francesco, il vero rivoluzionario del nostro tempo, sia riuscito a dare una scossa anche al mondo ecclesiale che ha in lui uno dei migliori esempi di normalità, di quella Chiesa che non deve stare dentro i palazzi, ma aprirsi. Don Diana e don Puglisi sono testimoni autentici di ciò che vuol dire essere uomini, prima ancora che essere sacerdoti. Hanno avuto il coraggio e l’intelligenza di andare nelle periferie, di lottare contro la povertà culturale, prima ancora che economica. 

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