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Paglia: Ci salveremo. Non da soli

Paolo Conti Ansa - GIORGIO ONORATI
Pubblicato il 24-04-2020

L'emergenza ci ha scoperto vulnerabili. L'anticorpo? La solidarietà

È appena uscito il saggio dell' arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita, Pandemia e fraternità. La forza dei legami umani riapre il futuro , (Piemme-Molecole). Intende aprire una discussione etica e culturale sulle prospettive della «ripartenza»: come perno, una recente Nota-documento della stessa Accademia.

Lei scrive: «L' emergenza suscitata dal Covid-19 si sconfigge anzitutto con gli anticorpi della solidarietà. Viviamo in tempi in cui nessun governo, nessuna società, nessun tipo di comunità scientifica deve considerarsi autoreferenziale».

Non è una visione troppo ottimistica? Non pensa che, finita l' emergenza, si tornerà al «mondo di prima»?
«Non lo penso. La tentazione di esorcizzare la paura ritornando semplicemente ai riti della spensieratezza precedente, buttandoci tutto dietro le spalle, ci sarà, è comprensibile. Ma anche la spensieratezza sarà diversa: è inevitabile. Lo shock è stato forte. Pensavamo, tutti, di essere sempre più sani e più belli, sempre più invulnerabili e tonici, padroni del mondo grazie alla scienza e alla tecnologia. Solo perché mettevamo i malati e i morti, i deboli e i vulnerabili, in una quarantena invisibile, tenendoli fuori dalla rappresentazione della vita che gode semplicemente sé stessa.

Ora tutti sono costretti a tenere fuori tutti: e ci ricordiamo improvvisamente di essere mortali, solo perché respiriamo. Non ci siamo presi cura della nostra tenera vulnerabilità condivisa, e ora ci viene imposto di viverla nell' abbandono: per aiutarci, siamo costretti a separarci. L' individualismo che abbiamo coltivato, ritorna come punizione: stai da solo se vuoi vivere. Ma da soli si muore. E male anche. Dopo l' emergenza non potremo evitare di affezionarci a una convivenza umana che apprezza di nuovo la bellezza della cura per la comunità, ad ogni costo».

Lei annuncia un «congedo da uno stile individualistico, inospitale e anaffettivo, dei nostri stessi legami economici, politici ed istituzionali». Ma come si può coniugare con le leggi del mercato, dove i sentimenti spesso non sono contemplati?
«Il nostro problema non sono le leggi del mercato ma il mercato delle leggi. Le famose regole della convivenza che una società si dà da sé sono sempre più merci, che si adattano ai soggetti economicamente più forti ed escludono quelli economicamente più deboli. Questa pressione invade ormai largamente anche le sfere vitali più sensibili al valore e alla ricchezza delle qualità propriamente umane: la famiglia, l' educazione, la scuola, la cultura, l'arte. E aggiungo un paradosso: l' indicatore più sensibile per la misura delle qualità spirituali di una civiltà è proprio la sanità, il luogo in cui la qualità spirituale della cura reciproca, di cui una comunità vive, è alla prova della sua verità. Lo stiamo vedendo a occhio nudo, in modo commovente e al tempo stesso drammatico, in questa tragica emergenza».

La malattia, lei scrive, è una delle dimensioni che ci accomuna tutti. Le cronache delle morti da Covid-19 lo dimostrano. La malattia è diventata più di prima un elemento della nostra vita quotidiana?
«La malattia e la vulnerabilità fanno parte della vita, della nostra esistenza, della condizione di essere "mortali". Dobbiamo invece mettere in campo risorse per assicurare modelli di assistenza "umani", che sostengano la dignità delle persone. Abbiamo messo ai margini anziani e poveri. Ci sentiamo meglio per questo? Abbiamo risparmiato denaro e risorse? Non credo, anzi sono sicuro di no. Noi siamo la società dello "spreco" che si comporta con gli "scarti" come con gli imballaggi di plastica: li gettiamo in mare... (Corriere della Sera)

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