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Padre Patton:israeliani e palestinesi insieme. Da pandemia non ci salveremo soli

Donatello Baldo Roberto Pacilio
Pubblicato il 15-04-2020

«Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci». Padre Francesco Patton, il religioso trentino Custode di Terra Santa e Guardiano del Santo Sepolcro, usa le parole di Isaia, convinto che questa emergenza possa realizzarne la profezia: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci - ripete convinto - e in Israele, oggi, le fabbriche di armi producono ventilatori. E poi si sta manifestando una solidarietà e una cooperazione inedite per queste terre: medici israeliani che formano i colleghi palestinesi, il governo di Tel Aviv che mette a disposizione dell'Autorità palestinese strumentazioni sanitarie e medicine».

Questo spirito durerà anche una volta sconfitto il coronavirus?
«Speriamo, e preghiamo per questo. Questo sentimento emerge perché tutti ci si rende conto che siamo uguali di fronte a questa minaccia, senza distinzione alcuna, meno che mai religiosa. Una foto ha fatto il giro del mondo: due operatori sanitari, uno ebreo e uno musulmano, che pregano. Il primo in direzione di Gerusalemme e l'altro rivolto alla Mecca».

Sarebbe bello che bastasse una preghiera per far finire la pandemia e per la pace nel mondo.
«La preghiera è importante, anche perché unisce. A fine marzo abbiamo convocato i grandi rabbini, quello ashkenazita e quello sefardita, un imam musulmano, il capo religioso dei drusi e dei bahá'í, i rappresentanti dei cristiani, il patriarca Teofilo e io. Riconoscendoci tutti nella comune radice di Abramo abbiamo invocato Dio perché cessi la pandemia e la sofferenza nel mondo».

Anche il papa ha pregato in piazza San Pietro. Una piazza vuota, come le chiese in questi giorni. Che effetto le fa?
«Quelle immagini sono potenti. Anche noi abbiamo sperimentato questa assenza celebrando il Giovedì santo nel Getsemani dentro una basilica vuota, percorrendo la Via crucis il Venerdì santo lungo la Via dolorosa in quattro frati dentro una città blindata e presidiata dalle camionette della polizia. L'anno scorso questi luoghi pullulavano di pellegrini, che ora lasciano spazio al vuoto fisico, segno dello sgomento che prova l'umanità colpita da un male imprevedibile, invisibile, minuscolo come il coronavirus. È una strana Pasqua, ma mi consola pensare che per noi cristiani questa parola significhi passaggio, resurrezione».

Che però presuppone un sacrificio, in questo caso quello della sofferenza di chi è contagiato, di chi è colpito dalle conseguenze economiche e soprattutto quello dei tanti morti che sta producendo questa pandemia. Hanno superato le trecento unità anche in Trentino. Come si potrà risorgere da tutto questo?
«Con la solidarietà. Quella che la Chiesa propone fin dalla "Rerum Novarum" di Leone XIII che introduce la cooperazione, l'economia della condivisione, contro l'economia della competizione e del liberismo selvaggio. Chi pensa di fare a meno degli altri, anche chi pensa di salvarsi da solo, fallirà».

Il Santo Sepolcro è chiuso, un fatto del tutto straordinario. L'ultima volta nel 1249, giusto?
«In realtà ci sono stati altri momenti nella storia in cui è stato chiuso, soprattutto momenti in cui non venivano più i pellegrini perché impediti da motivi politico-militari. Nel 2000, dopo lo storico pellegrinaggio di Giovanni Paolo II, ne iniziò uno di massa che fu però bloccato con lo scoppio della Seconda intifada. Spero che con l'estate i pellegrini tornino a visitare questi luoghi».

Cosa impareremo da tutto questo?
«Questo imperativo del distanziamento sociale ci ha obbligati ad allontanarci dalla dimensione sociale, è vero, ma al tempo stesso ci ha fatto riscoprire la dimensione più raccolta, familiare, fraterna. Luoghi dove le parole "grazie", "posso", "per favore", ma anche un autentico "come stai?", hanno un peso profondo. Abbiamo scoperto di avere persone vicine che non sapevamo esistessero, vicini di casa che di solito nemmeno vedevamo. E poi abbiamo riscoperto la lentezza che ci obbliga a stare con noi stessi, un esercizio che ci porta a rientrare in noi stessi, come diceva sant' Agostino. Ogni passo in più verso noi stessi è un passo in più per superare la nostra superficialità, una malattia ben più grave del coronavirus. Se impareremo a rientrare in noi stessi avremo imparato tanto»... (Corriere del Trentino)

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