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Padre Dall’Oglio, l’uomo del dialogo

Redazione ANSA/Alessandro di Meo
Pubblicato il 17-11-2019

​I 65 anni del sacerdote rapito da un commando dell’Is nella città siriana di Raqqa

«Un uomo di Dio, e dell’uomo». Jacques Mourad, cofondatore dell’ordine monastico di Mar Musa, ricorda così il suo amico, lui lo chiama “mio fratello”, padre Paolo Dall’Oglio, mentre addolorato segue le notizie che arrivano dalla loro Siria. Ad affratellarli, oltre a tanti ricordi, c’è l’esperienza comune del sequestro da parte del sedicente stato islamico (Is). Quello di padre Jacques è durato cinque mesi, è cominciato nel 2015 a Mar Elian e lo ha portato a Raqqa e quindi a Palmira. Quello di Dall’Oglio è cominciato poco dopo il sequestro dei due vescovi siriani, il siro-ortodosso Yohanna Ibrahim e il greco ortodosso Boulos Yaziji, come lui ancora inghiottiti nel buio del conflitto siriano.

Era il 29 luglio del 2013 quando se ne è avuta traccia per l’ultima volta. Dall’Oglio tentava da giorni di contattare i vertici dell’Is, presenti a Raqqa ma ancora non controllata da loro. Lui stesso rivelò che intendeva contattarli, per perorare il rilascio di alcuni sequestrati, come aveva fatto con successo un anno prima, vicino a Homs.

La ricostruzione più diffusa lo vuole arrestato nel comando dell’Is, ma sin da subito a Raqqa qualche voce ha sussurrato che padre Paolo sarebbe stato prelevato da un’auto con vetri bruniti a poca distanza di lì, nella centralissima piazza dell’orologio, dopo che aveva lasciato, senza riuscire ad avere colloqui, il quartier generale dell’Is.

Da allora è calato il buio, ma chi lo conosce è sicuro che Paolo il 4 febbraio del 2019 avrebbe gioito per la firma della dichiarazione per la fratellanza umana ad Abu Dhabi da parte di Papa Francesco e dell’imam di al-Azhar, Ahmad al-Tayyeb, un giorno che aveva atteso per trent’anni.

Padre Paolo Dall’Oglio è nato a Roma 65 anni fa, il 17 novembre del 1954, divenendo presto famoso come il gesuita romano che ha scelto la Siria come sua frontiera di uomo del dialogo, vivendo per oltre 30 anni nel deserto del Qalamoun, a Mar Musa. È lì che Dall’Oglio ha deciso di seguire la strada indicata dai suoi maestri, Louis Massignon e Charles de Foucauld. I suoi anni in Siria sono stati segnati dalla scoperta di quel monastero di Mosè l’Abissino, Mar Musa, dove ha impiantato la sua tenda d’Abramo e fondato l’ordine monastico di Deir Mar Musa, dedicando la sua vita al dialogo islamo-cristiano, per lui un’esperienza spirituale fondata sul misticismo.

La sua prospettiva non è mai stata quella di un dialogo inter-religioso, ma religioso, un dialogo cioè che si fa tra persone, davanti a Dio. Per questo la sua è sempre stata una Chiesa in uscita. Un’amica ortodossa, Hind Aboud Kabawat, lo ricorda arrivare a Istanbul, dove lei viveva da anni, e confermarle ogni volta che «non possiamo starcene a casa a fare le nostre lezioni. Dobbiamo andare incontro alla gente. Perché questo è il significato di libertà e democrazia, dalla gente alla gente. Questo è esattamente ciò che Gesù vuole e ciò che Gesù faceva».

Una delle più semplici premesse a questa visione la offre il docufilm “Need to consolidate” di Daniele Baldacci nel quale Dall’Oglio afferma che i monasteri cristiani in territori a maggioranza musulmana sono la migliore riprova che non c’è miglior protezione del buon vicinato. Ma il buon vicinato per lui è solo l’inizio, un passaggio; la scoperta dell’altro parte dalla parola e passando per il dialogo arriva alla fratellanza. Ha indicato questo cammino anche nella semplice raccomandazione, formulata nel 2012, a procedere nel colloquio italiano tra musulmani e cristiani. Non un’algida con-vivenza, ma un rapporto fraterno, personale: «Chiamate il vostro vicino di casa dicendogli: signor Mohammad so che oggi comincia il Ramadan e volevo farle tanti auguri. Vedrete che per Natale sarà lui a chiamarvi per farvi i suoi di auguri».

Dall’Oglio ha scelto la frontiera islamo-cristiana in anni angosciosi, quegli anni Ottanta segnati da massacri efferati, e vi è rimasto fino al 2012, quando fu espulso dal regime di Assad. Lasciando la Siria salutò il suo Qalamoun, il deserto siriano dove aveva vissuto per così tanto tempo, ma non poté separarsi realmente dai suoi connazionali, i suoi fratelli siriani, cristiani e musulmani.

Convinto che esista un’elezione nell’esclusione, ha interpretato così il senso della figura di Ismaele e ha cercato di dire anche questo in quel suo saluto che visse come una lacerazione della sua carne. «Per un discepolo ogni Paese è patria» si ripeteva in quei giorni, quando il patriarca caldeo, Sua Beatitudine Louis Sako, lo invitò ad aprire un monastero nel nord dell’Iraq; ma il disastro lo legava ai siriani in modo irresolubile.

Infatti avvertì immediatamente il dovere di rientrare in Siria, per andare a raccogliersi in preghiera sulle fosse comuni che si susseguono lungo l’Oronte, tra Hama e Homs.

Poi è rientrato nuovamente, forse per l’annunciata missione, di certo perché sentiva che l’uomo di Raqqa non poteva essere lasciato solo davanti all’imminenza dell’arrivo dell’Is.

È stato allora, nei giorni immediatamente precedenti il suo sequestro, il 26 o 27 luglio del 2013, che ha rilasciato un’intervista radiofonica, il cui testo è rimasto a lungo sepolto nell’etere, forse il suo vero testamento spirituale: «Cari amici siriani, se ciascuno di noi chiude la sua mente e crede che le cose andranno come vuole lui, resterà deluso: procedendo in questo modo le cose andranno come vuole il diavolo, noi tutti perderemmo il Paese e ciascuno di noi perderebbe l’altro. Cari miei, pensiamo invece a cosa fare per mettere il Paese sulla strada della comprensione, della convivenza, della fratellanza, della democrazia matura. [...] L’Unità nazionale che abbiamo avuto era imposta dall’alto, come nello stato napoleonico. Questo è il passato che non funziona più: ora vogliamo un’unità che parta dal basso, dalla volontà dei cittadini, e quindi ci fornirà di buoni rapporti con tutti i nostri vicini: i turcomanni porteranno rapporti privilegiati con la Turchia, i curdi con i loro fratelli di Suleymaniyya e Irbil, oltre quelli turchi e iraniani, i drusi porteranno buoni rapporti con gli altri drusi della regione, gli sciiti ci porteranno relazioni privilegiate con gli sciiti del sud del Libano, dell’Iraq e dell’Iran. Perché no? Ognuno di noi ha la sua appartenenza, io sono cattolico e appartengo a Roma, che problema c’è in questo? E se l’altro è cristiano ortodosso avrà e porterà rapporti privilegiati con Istanbul, con la Grecia e la Russia. Dobbiamo mettere tutte queste appartenenze in un quadro di comprensione caratterizzato dalla religiosità. Alcuni di noi dicono che la religione è di Dio e la patria di tutti. Io non rifiuto questa frase. Ma voglio un Paese plurale e armonioso, dove regni la religiosità, cioè dove le persone si amano perché esseri umani, creature di Dio, e quindi con diritti e dignità e il meritato rispetto. Religiosità significa guardarsi come Dio guarda le sue creature. Torno così all’ottimismo e alla voglia di costruire l’unità nazionale che non sia imposta dall’alto».

di Riccardo Cristiano - L'Osservatore Romano

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