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Non solo ricchezza, la felicità arriva aiutando il prossimo

Redazione Il Fatto Quotidiano
Pubblicato il 23-07-2019

Il report 2019. L’Italia è uno dei Paesi che ha perso più posizioni rispetto al 2005-08

Si può essere infelici pur avendo 17.500 dollari di reddito all’anno a testa (che è quanto risulta dividendo il reddito globale per i 7 miliardi e 700 milioni di persone sulla terra)? A quanto pare sì, visto che gli esseri umani non sono felici come invece ci si aspetterebbe se considerassimo unicamente la loro ricchezza. A spiegarci con chiarezza perché sono due poderosi rapporti sulla felicità globale usciti quest’anno: il World Happiness Report 2019, curato da John F. Helliwell (University of British Columbia), Richard Layard (London School of Economics) e Jeffrey D. Sachs (Columbia University).

E il complementare Global Happiness and Wellbeing Policy Report 2019, curato dal Global Council for Happiness and Wellbeing (Gchw), un network globale di ricercatori e scienziati di varie discipline. Gli studiosi si affrettano a spiegare che se è vero che quell’ipotetico reddito non è equamente distribuito –1.2 miliardi di persone arrivano a 47.000 dollari mentre 700 milioni solo a 2.000, ragion per cui la lotta alla povertà resta un obiettivo fondamentale - la vera discriminante del nostro benessere non è la ricchezza. Per essere felici serve soprattutto praticare la generosità, che produce benessere specie se “ci si sente connessi alle persone che si aiutano e si sente che il proprio aiuto fa la differenza”. E poi servono buona salute, soprattutto mentale, amici, buon sostegno sociale, fiducia nella società, governanti onesti e assenza di corruzione.

Ed è proprio utilizzando queste variabili che è stata stilata quest’anno la classifica globale della felicità che, sottolineano gli esperti, si può studiare esattamente come qualsiasi altra cosa, usando un rigoroso metodo sperimentale. Per i paesi al vertice le sorprese sono poche: vola in testa la Finlandia, seguita da Danimarca, Norvegia, Islanda. E poi Olanda, Svizzera, Svezia, Nuova Zelanda, Canada, Austria, mentre tra i primi 20 ci sono anche Costa Rica, Lussemburgo e Israele. A colpire nella classifica della felicità è soprattutto la distribuzione eterogenea di chi fa donazioni e attività di volontariato: in cima alla classifica dei paesi che donano di più ci sono Australia, Hong Kong, Islanda, Indonesia, Malta e Nuova Zelanda (l’Italia è al 38,4%), mentre per il volontariato spiccano la Liberia, Sri Lanka e Sierra Leone (Italia al 16,4%).

Ma dove si piazza l’Italia nella classifica generale? Al 36esimo posto, recuperando 11 posizioni rispetto all’anno precedente. Una buona notizia a metà, perché nel Rapporto di quest’anno per la prima volta viene fatta una comparazione complessiva tra i dati del 2005-2008 e quelli del 2016-2018. Ebbene, su 132 paesi, 64 hanno migliorato il proprio status, 42 lo hanno peggiorato, tra cui non solo Venezuela, India, Ucraina, Yemen, Botswana, Venezuela, Siria - ultimi nelle classifiche - ma anche Grecia, Spagna e Italia (il paese che invece è risalito di più, di ben 50 posizioni? Il Benin).

Ma cosa causa tanta infelicità nei paesi con un reddito pro capite alto? Il Rapporto – che analizza anche l’infelicità degli IGen, gli adolescenti specie americani, caduta a picco a partire dal 2012 - parla chiaro: tutte le attività che prevedono l’utilizzo di uno schermo producono depressione e infelicità, contrariamente a chi invece legge di più, dorme di più e magari frequenta la parrocchia. Il professor Sachs parla di una società “di dipendenza di massa”: marijuana, alcol, tabacco, scommesse, eccesso di cibo, sesso-dipendenza distruggono la salute mentale e fisica. Per non parlare della corruzione, delle diseguaglianze crescenti soprattutto all'interno dei paesi e di un’economia che sta devastando l’ambiente.

Eppure su questi aspetti i governi potrebbero agire con politiche pubbliche efficaci. Che per essere tali, si legge nel Global Happiness and Wellbeing Policy Report 2019, dovrebbero porsi come scopo proprio quello della felicità. Parlare di felicità in ambito sanitario, ad esempio, significherebbe occuparsi soprattutto di salute mentale, terapia del dolore, specie nel fine vita, e famiglie dei malati. Un sistema scolastico finalizzato alla felicità svilupperebbe competenze alternative, ma complementari, a quelle accademiche, mentre le città dovrebbero essere disegnate in funzione della loro sostenibilità e diventare più verdi, sicure, tolleranti, inclusive e accessibili.

Può bastare anche poco: ad Aarhus in Danimarca, il sindaco ha tappezzato d’erba la piazza principale, piantato centinaia di alberi, creato spazi sociali e di gioco. Il risultato? La criminalità della zona è stata azzerata. E magari quel sindaco sarà rieletto, visto che il Rapporto 2019 dimostra che chi è infelice è attratto da populisti e leader autoritari, chi è soddisfatto non solo è più impegnato politicamente, ma tende a votare i politici in carica. La felicità, insomma, conviene a tutti. Pure a chi governa.


Elisabetta Ambrosi – Il Fatto Quotidiano


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