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Non demonizzate la Rete, usatela per fare il bene

Giorgio Paolucci
Pubblicato il 05-11-2020

Come è possibile rimanere pienamente uomini nel tempo di una “pandemia social”?

Uno dei cambiamenti indotti dalla pandemia da Covid 19 è l’aumento esponenziale dell’uso del digitale nel lavoro, nella scuola, nella gestione del tempo libero, nei rapporti sociali, nello shopping. La Rete è uno strumento di libertà che ci permette di superare i confini materiali e nel contempo ci ha resi oggetti di controllo e di classificazione. Come è possibile rimanere pienamente uomini nel tempo di una “pandemia social”? A confrontarsi su questo interrogativo, la Fondazione Russia Cristiana e il Centro Culturale di Milano chiamano docenti universitari, giornalisti, esperti italiani e stranieri in un convegno intitolato “Una rete che imprigiona, una rete che sostiene, una rete che libera”. 

Tra i protagonisti dell’appuntamento – che si potrà seguire il 6 e 7 novembre sul canale YouTube del Centro Culturale di Milano – c’è il presidente emerito della Camera dei deputati Luciano Violante, in qualità di presidente della Fondazione Leonardo: «Uno dei fattori più potenti di questo “cambiamento d’epoca”, come lo chiama Papa Francesco, è il digitale e le sfide che porta con sé. Tra queste, il fatto che non è vero – come taluni ritengono – che la Rete ha eliminato i mediatori consentendo un accesso diretto alla realtà: facciamo i conti con grandi mediatori, anche se “occulti”, che si chiamano Google, Facebook, Amazon. Un altro dato significativo è che mentre nella società analogica il cittadino doveva sapere tutto del potere e il potere doveva sapere il meno possibile del cittadino, in quella digitale il potere sa tutto del cittadino e il cittadino non sa nulla del potere». Questo non significa demonizzare la Rete, ma richiama la necessaria consapevolezza che «bisogna essere capaci di governare la trasformazione in atto esaltando i vantaggi – che sono inestimabili – e limitando i danni».

Cosa spinge una realtà come Russia Cristiana, da decenni attenta a ciò che si muove a Oriente, a occuparsi di questi temi? Secondo don Francesco Braschi, presidente della Fondazione, «proprio nei Paesi dell’Est europeo la Rete è stata paragonata da molti a una sorta di nuovo samizdat che – nonostante i tentativi di controllo da parte dei governi – può essere praticato come ambito di libertà e creatività, dove la persona esprime la propria identità e diventa protagonista di una creatività sociale e culturale che nasce dal basso e diventa fattore di cambiamento. Penso per esempio alle numerose esperienze di solidarietà per bambini, malati gravi, disabili, orfani e ad altre realtà nate in quei Paesi, che nel convegno verranno raccontate dai protagonisti. Così Internet diventa luogo di costruzione sociale e alimenta relazioni che sarebbe altrimenti difficile praticare fisicamente».

Vi è poi una dimensione antropologica di grande rilevanza, che può essere racchiusa in un interrogativo: come sta cambiando l’autocoscienza di una persona sempre più abituata a guardarsi sotto la lente di ciò che di lei appare nel web? L’uso sempre più frequente dei social, il fatto che ognuno si presenta con dei “profili”, come sta cambiando la percezione di sé? Comporta una perdita di autocoscienza oppure può nascere una coscienza nuova capace di integrarsi con strumenti che sono al tempo stesso sempre più potenti e sempre più invasivi? E da dove può nascere questa posizione umana, più libera e insieme più responsabile dei suoi atti?

Sono interrogativi che coinvolgono anche la dimensione religiosa: «Le limitazioni legate alla pandemia hanno portato a un utilizzo ancora più spinto della Rete come mezzo utile per la testimonianza della fede, per la diffusione di esperienze in chiave missionaria, per il confronto su temi ecclesiali. Non solo: in certi casi la Rete è diventata un luogo che consente di esercitare la pratica liturgica, pensiamo alla possibilità di seguire le messe in streaming quando era stata sospesa la celebrazione nelle chiese. In definitiva, una rivoluzione epocale che ha indotto a interrogarci su come, nel tempo di una pandemia “social”, si può essere protagonisti e non spettatori inconsapevoli o, peggio, utenti eterodiretti». (Avvenire)

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