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Nanomateriali nei cosmetici: Scienziati sempre più dubbiosi

Redazione online
Pubblicato il 30-11--0001

Attenzione: il sole fa male alla pelle. Anzi, fa anche più male di qualche anno fa: ciò “grazie” al buco nell’ozono, l’ormai noto assottigliamento dello strato gassoso che avvolge la Terra, cui si deve la naturale e importantissima funzione filtrante nei confronti dei raggi ultravioletti (gli Uv). Quindi non bisogna dimenticare di utilizzare – e non soltanto al mare o in montagna ma anche nella quotidiana vita cittadina – le creme protettive con i filtri solari. E qui viene il bello: anche questi cosmetici potrebbero far male. Non tutti, ma quelli di nuova generazione: prodotti con filtri fisici al posto dei filtri chimici, invece di assorbire le radiazioni ultraviolette le riflettono. Il problema è che questi schermi sono prodotti con nanoparticelle sintetiche, e cioè materiali straordinariamente piccoli ottenuti in laboratorio, sulle cui caratteristiche in realtà si sa ancora troppo poco.

Eppure nanomateriali sono contenuti in molti prodotti già in commercio in svariati settori: dall’elettronica ai sanitari, dall’abbigliamento ai cosmetici, dagli occhiali ai giocattoli per bambini e così via. Secondo dati molto recenti, ogni settimana vengono messi in commercio tra i tre e i quattro prodotti di consumo nanotecnologici. Il Progetto sulle nanotecnologie emergenti (Pen), che dal 2005 si occupa di studiare questo settore per prevedere e controllare i potenziali rischi, ha effettuato un censimento dei prodotti esistenti stimando che dal 2006 ad oggi sono cresciuti da 212 a 609. Negli Usa, lo scorso anno sono stati venduti prodotti che incorporano nanotecnologie per un valore di oltre 88 miliardi di dollari, e ciò nella quasi totale ignoranza dei consumatori. E proprio l’opinione pubblica, oltre alla sicurezza, rappresenta una sorta di spada di Damocle per quella che è universalmente riconosciuta come la bomba tecnologica del XXI secolo. In una fase in cui in tutto il mondo si stanno investendo cifre enormi per studiare le nanotecnologie - che offrono potenzialmente soluzioni del tutto innovative per il futuro dell’umanità e d’altro canto aprono abissi ancora imperscrutabili sulle interazioni con gli organismi viventi – sarà proprio il giudizio dei cittadini/consumatori a fare la differenza: «L’uso delle nanotecnologie nei prodotti di consumo e nelle applicazioni industriali è in rapida crescita – ha sottolineato David Rejeski, direttore del Pen Project, in un dibattito al Comitato su Commercio, scienza e trasporti del Senato statunitense -. La sensazione pubblica sui rischi, reali e percepiti, può avere conseguenze economiche importanti. La risposta dei consumatori a questi primi prodotti (in cibi, articoli di sanità, abbigliamento e automobili) è la prova del nove per un più ampio futuro accoglimento delle nanotecnologie da parte del mercato».

Di quanti soldi si parla? Un miliardo e mezzo di dollari all’anno negli Stati Uniti, 12,4 miliardi nel 2006 a livello globale. Eppure, nonostante la conoscenza su queste tecnologie sia ancora ai primissimi passi, soltanto una minima parte di queste cifre vengono devolute alla ricerca sui potenziali rischi: 24 milioni di dollari nell’Unione Europea, poco più della metà negli Usa, almeno stando alle analisi indipendenti effettuate dal Pen, che tra i progetti con finanziamenti federali ne ha individuati solo 62 come «altamente rilevanti» per la comprensione dei rischi legati alle nanotecnologie (dati calcolati sull’anno fiscale 2006). Intanto però si va avanti. Non soltanto con la ricerca, ma con la produzione e la vendita di questi prodotti con una possibile sorpresa ad orologeria. Secondo il Lux Research, entro il 2014 circa il 15 per cento della produzione totale nel mondo sarà costituito da beni che incorporano nanomateriali. Ciò che sconcerta è vedere questo cavallo correre a briglia sciolta verso una curva con nessuna visibilità, e niente sembra al momento poterlo fermare. Da un lato abbiamo oltre seicento prodotti regolarmente in vendita e tendenzialmente senza alcuna indicazione in etichetta (ma se anche ci fosse scritto “contiene nanomateriali” in quanti si chiederebbero cosa vuol dire?); dall’altro c’è il paradosso che in questa materia non esistono neanche definizioni condivise, tant’è vero che scienziati di tutto il mondo spingono con urgenza verso l’enunciazione di un linguaggio comune per poter incrociare i risultati delle rispettive ricerche. Questa incertezza si riflette in un vuoto legislativo assoluto: non sapendo di cosa si stia disputando, quali siano le caratteristiche precise dei nanoprodotti e delle nanotecnologie, non è stato finora possibile darsi delle regole. Una situazione di tale inaudita gravità da provocare a livello internazionale e regionale la creazione di codici di autoregolamentazione volontaria.

Nel 2004 (anno in cui Modus pubblicò un’importante inchiesta su questa tecnologia emergente di cui ancora non si parlava) la Royal Society e la Royal Academy of Engineering britanniche lanciarono un serio allarme sulla possibile pericolosità delle nanoparticelle sintetiche per la salute umana; non era il primo, in quanto già altre ricerche indipendenti avevano segnalato effetti tossici provocati dalla penetrazione di nanoparticelle all’interno di tessuti e organi (cfr. Modus n. 6/2004). Ma il dibattito a livello scientifico, sociale e politico era pressoché inesistente. Le cose sono cambiate negli ultimi due anni, con il succedersi di studi che hanno anche in parte modificato l’approccio, eccessivamente ottimistico e forse un po’ superficiale, delle autorità europee in materia. In risposta a precise questioni poste dalla Commissione europea, tra marzo del 2006 e giugno 2007 lo Scenihr (Comitato scientifico sui rischi sanitari emergenti e recentemente identificati), dopo una consultazione pubblica, si è pronunciato con ben tre pareri, in cui pone importanti paletti metodologici sul cammino verso lo studio delle nanotecnologie: partendo dal presupposto che i nanomateriali hanno differenti proprietà tossicologiche e rispondono a leggi diverse rispetto ai rispettivi elementi da cui sono originati, va valutato caso per caso se siano pericolosi oppure no (non basta cioè sapere che il titanio è un materiale sicuro per esser certi che anche una sua nanoparticella lo sia); inoltre, proprio per le qualità intrinseche di questi nuovi oggetti di studio, gli attuali metodi di indagine tossicologica ed ecotossicologica potrebbero non essere adeguati (Modified opinion on the appropriateness of existing methodologies to assess the potential risks associated with engineered and adventitious products of nanotechnologies, Scenihr/002/05).

Nella seconda metà del 2007 viene raccolta un’imponente mole di dati in seguito alla consultazione pubblica lanciata dalla Commissione europea con l’intenzione di varare un Codice di condotta per una ricerca responsabile su nanoscienze e nanotecnologie, effettivamente rilasciato il 7 febbraio 2008. Si tratta di un documento non vincolante – come altri adottati in diverse regioni del pianeta per sopperire in qualche modo all’attuale vuoto legislativo – indirizzato agli stati membri, cui viene chiesto non solo di incoraggiarne l’adozione presso tutti gli interessati ma anche di cooperare con la Commissione mandando annualmente dei report sull’applicazione effettiva ed i risultati, per rivederne ogni due anni i contenuti. Sette i principi chiave sui quali tarare la ricerca: senso («Le attività di ricerca N&N devono essere comprensibili per il pubblico. Devono rispettare i diritti fondamentali ed essere condotte nell’interesse del benessere degli individui e della società nella loro progettazione, implementazione, divulgazione ed uso»), sostenibilità, precauzione, inclusione (diritto di accesso alle informazioni e di partecipazione ai processi decisionali per tutti i portatori di interesse), eccellenza, innovazione e responsabilità. Pochissimi giorni fa il Consiglio internazionale sulle nanotecnologie (Icon) ha pubblicato i risultati di due convegni internazionali, cui hanno partecipato 70 esperti di 30 paesi, per definire una strategia globale per comprendere gli impatti delle nanotecnologie sulla salute e sull’ambiente, tramite la realizzazione di modelli che predicano le interazioni tra nanoparticelle di sintesi ed organismi. Gli esperti hanno individuato 26 ricerche indirizzate a questo fine e altre sei per la gestione del rischio, dandosi anche delle scadenze a due, cinque e dieci anni per produrre degli strumenti che aiutino gli addetti ai lavori a descrivere i pericoli di questa scienza emergente. La Stampa

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