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Letteratura, la peste che parla di noi

Redazione Unsplash
Pubblicato il 05-02-2021

Un lungo filo conduttore tra opere di paesi diversi

Plague. Plague. Plague. Plague ... A contarle tutte, William Shakespeare infilò 118 volte la peste nei suoi lavori teatrali. Più 14 volte la pestilence . La «pestilenza è il sospetto che Jago insinua nell'orecchio di Otello, o il veleno che Claudio versa nell'orecchio del padre di Amleto, principe di una Danimarca infestata da "una sporca pestilenziale accozzaglia di vapori"» e insomma la peste, scrive Siegmund Ginzberg, trabocca un po' ovunque nelle opere del massimo drammaturgo inglese. Lo stesso «Romeo muore perché i frati che dovevano comunicargli che la morte di Giulietta era finta sono trattenuti in quarantena forzata». La peste è tutto. La metafora di tutto. Fino a esorcizzare la paura: «Shakespeare non teme la peste. Ci scherza, per lui è soprattutto una metafora, un'esclamazione. Forse si riteneva immune. Forse l'aveva avuta senza conseguenze». Ma è «l'intera letteratura occidentale», dimostra il libro Racconti contagiosi (Feltrinelli), a esser dall'inizio marcata: «Già i primi versi dell'Iliade di Omero raccontano di un'epidemia micidiale che falcidia le fila dei greci che assediano Troia. Un dio, Apollo, ascolta le preghiere di un suo sacerdote cui il prepotente Agamennone ha sottratto la figlia per farne la propria concubina. Apollo, l'arciere, scende invisibile, "come la notte". "Si postò dunque lontano dalle navi, lanciò una freccia,/ e fu pauroso il ronzio dell'arco d'argento./ I muli colpiva in principio e i cani veloci,/ ma poi mirando sugli uomini la freccia acuta,/ lanciava: e di continuo ardevano le pire, fitte"». Un'epidemia domestica.

Ma forse anche quella, chissà, arrivava dall'Oriente lontano: «Il terrore viene sempre dal fondo dell'Asia», spiega lo scrittore, «tutti, ma proprio tutti, da Tucidide a Procopio, da Boccaccio a Chateaubriand, a Dostoevskij, ai nostri contemporanei, danno per scontato che le pandemie arrivino dall'Oriente. Se non sono i tartari è "il male di Costantinopoli", se non è l'India è la Cina». Un'ossessione. E se l'autore di Delitto e castigo racconta nel 1866 di come Rodion Romanovic Raskolnikov avesse immaginato di vedere «tutto il Paese devastato da un flagello terribile e senza precedenti che, venuto dal fondo arido dell'Asia», era piombato sull'Europa condannando tutti a morire «tranne alcuni, pochissimi eletti», mezzo secolo dopo Jack London ribalta tutto escogitando una vendetta contro il Pericolo giallo. Occhio per occhio, pandemia per pandemia. E ne L'invasione senza precedenti della Cina immagina di contrattaccare l'invasione cinese nel mondo, a partire dalla sua California, con una molteplicità di virus «coltivati nei laboratori batteriologici dell'Occidente». Risultati terrificanti: «Colui che sfuggiva al vaiolo soccombeva alla febbre gialla. Chi non fosse contagiato dal colera, cadeva preda della scarlattina. Chi resisteva a questa veniva falciato dalla "Morte nera", cioè dalla peste».

Qual è il filo conduttore di questo lungo viaggio tra La coscienza di Zeno di Italo Svevo e la poesia del quindicenne Winston Churchill contro «il vile, insaziabile flagello» dell'influenza russa, l'Edipo re di Sofocle dove «Edipo indaga, o fa finta di indagare, finché si scopre che è proprio lui il colpevole della funesta pestilenza che ha colpito Tebe», e l'Inghilterra elisabettiana che nei tempi di morte «conosce una vera e propria fioritura di manuali e testi di medicina che prescrivono l'allegria scacciapensieri, il raccontare storie, e in modo specifico l'andare a teatro»? «Il senso di questo libro», risponde l'autore a lungo inviato e corrispondente in Iran, Cina, India, Giappone, Stati Uniti, Europa, è condividere «il piacere di letture molto note o meno note».

Ed ecco la Milano dell'autunno 1576 dove Carlo Borromeo promuove contro la peste tre processioni di fila con migliaia di flagellanti («il cardinale in persona si era messo un cappio al collo e procedeva scalzo, in guisa di criminale condannato»), col risultato infausto di moltiplicare i contagi tanto a spingere al contrordine: «Pregate, ma statevene a casa». Al che, come annoterà Paolo Bisciola nella sua Relatione verissima del progresso della peste di Milano , «le orazioni non cessarono, ché ognuno stette a casa o alla finestra o porta e (...) passeggiando per Milano non si sentiva altro che cantare, venerare Dio, supplicare i Santi». Ecco la Roma di Gioacchino Belli che in un sonetto composto durante l'epidemia di colera del 1836, arginata con le inevitabili clausure, si sfogò chiedendo: «Pe nun morì domani de collèra/ S' avrebbe oggi da morì de fame?». Le stesse autorità pontificie «che a lungo avevano minimizzato e censurato le notizie», d'altra parte, non avevano scelta. E si sarebbe visto a gennaio dell'anno successivo. Quando, dopo aver vissuto un Natale amarissimo (vietato l'ingresso agli zampognari, vietati i presepi...) e aver visto cancellare pure il Carnevale, i romani furenti imposero «il ripristino della Festa dei Moccoletti, che si svolgeva tradizionalmente il martedì grasso. Ripartì naturalmente il contagio, e dovettero richiudere tutto».

Ecco la Serenissima del 1468 descritta da Francesco Sansovino. Una città appestata dove c'era un lazzaretto in cui venivano concentrati i sani che «essendosi mescolati con gli infermi, dubitando di qualche contagio» dovevano fare una «contumacia di 22 giorni» ed erano ogni mattina assistiti da una flottiglia di barchini tale da aver «sembianza d'armata che assediava la città» ed erano tutti carichi «di pane, di carne cotta, di pesce & di vino [ e ai nuovi arrivati gli dicevano] che stessero di buon animo, perché non vi si lavorava ed erano nel paese di Cucagna». Ma come dimenticare i soldati francesi decimati nel 1799 dalla peste durante la campagna d'Egitto? Fu solo una calunnia costruita dagli inglesi l'eutanasia di massa con il laudanum di quei poveretti che Napoleone non poteva trascinarsi dietro? E quella magnifica e immensa tela dipinta da Antoine-Jean Gros oggi esposta al Louvre col titolo Bonaparte mentre visita gli appestati di Jaffa rappresenta un fatto realmente accaduto (il generale consola e «addirittura tocca con la mano nuda un gigante seminudo al quale stanno incidendo un bubbone») o fu solo uno spot propagandistico? Sono tante, le domande poste da Racconti contagiosi .

La peste di Marsiglia (120 mila morti) del 1720 fu causata dall'ingordigia del sindaco che, essendo armatore della nave «Grande Saint Antoine», violò di notte il cordone sanitario per scaricare una quantità di tessuti infetti arrivati dall'Oriente? Daniel Defoe scrisse Due Preparations for the PlaguePreparazioni necessarie per la peste») per «difendere a spada tratta le scelte del governo» inglese allora in affanno? Quali sono state nella storia le responsabilità dei negazionisti (come «Le Petit Journal de Paris» che nel 1889 ironizzava sull'influenza russa e «l'agitazione creata da giornali pronti a seminare panico») o al contrario dei cacciatori di «untori», spesso identificati con gli ebrei «raffigurati come frotte di topi, portatori di pestilenze»? E perché, prima di quel magnifico incipit de La peste di Albert CamusLa mattina del 16 aprile il dottor Bernard Rieux, uscendo dal suo studio, inciampò in un topo morto in mezzo al pianerottolo») «quasi nessuno degli autori "classici" parla di ratti o topi»? Non sono solo dubbi letterari... Hanno pesato sulla nostra storia. E rischiano, se non cerchiamo di trarne alcune lezioni, di pesare ancora. (Corriere della Sera)

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