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Le virtù del Paese di fronte al dolore

Dacia Maraini, Corriere della Sera
Pubblicato il 31-03-2020

La pandemia è entrata nelle nostre giornate come un sasso che ti prende alla schiena e ti stordisce. Non sai chi l’ha tirato, non sai da dove viene ma pure ti prende in pieno e qualcuno, colpito alla nuca, ne muore. Le immagini scorrono crudeli sullo schermo: persone soprattutto anziane che ansimano, che tremano, che chiedono aria. È crudele la sorte di chi muore solo, senza la consolazione di un volto familiare vicino.

Uno strazio che comunica un grande dolore. La notizia inaspettata è il crescente numero di medici che vengono contagiati e muoiono. Ma come, non erano protetti, chiusi nelle loro tute antivirus, nei loro scafandri? Evidentemente no. Molti danno la colpa alla mancanza di previdenza e quindi alla impreparazione delle difese, appunto maschere efficaci, tute a prova di virus, occhiali protettivi ecc.

Come è possibile che chi sta a contatto coi malati non sia fornito di tutto ciò che è necessario alla sua incolumità? Hanno sbagliato coloro che non ci hanno pensato prima? Ma prima quando? Chi poteva immaginare che la sassaiola colpisse il nostro Paese con tanta violenza? C’è chi invece fa risalire la responsabilità a quei governi che incoscientemente hanno tagliato sulla salute pubblica: chiusi gli ospedali minori, scoraggiato l’ingresso dei nuovi medici, tagliati i fondi per la ricerca.

A me sembra che questa sia la giusta spiegazione di tante carenze di oggi di fronte alla catastrofe. Un’altra domanda che ci si fa è: perché il virus colpisce piu gli uomini che le donne? Nessuno sa spiegarlo. Una questione di ormoni? una difesa legata alle abitudini quotidiane? lo stress? il fumo? Ci sono molte cose che non si capiscono di questo misterioso e sornione microorganismo che è entrato in punta di piedi, comparendo come una cosa da nulla e ora spadroneggia prepotente in tutto il mondo.

Non si può negare che sia dotato di una sua bellezza: una piccola sfera delicata, vibrante, che pulsa allargando e stringendo i suoi fiori carnosi, di un rosso pompeiano. La sua bellezza, assomiglia molto a quella del fungo letale Amanita Muscaria, bello anche quello, tutto rosso, tempestato da una corona di pistilli bianchi. Se ne mangi anche un pezzetto vai all’altro mondo. A volte la bellezza si lega al proibito e suscita paure profonde. Ma la paura ha bisogno per alleggerirsi di un capro espiatorio. E spesso il capro espiatorio viene trovato in una colpa collettiva, come succede nella Bibbia in cui un Dio irato per la empietà umana manda il diluvio universale.

Riprendo in mano il libro di Susan Sontag, «Malattia come metafora». «Non c’ è niente di più primitivo che attribuire a una malattia un significato personale, poiché tale significato è inevitabilmente moralistico», scrive Susan. Nel suo libro ironizza ma anche condanna con molta fermezza l’uso che perfino la psicanalisi, con Freud in testa, fa della malattia in senso simbolico e narrativo, cadendo in una forma di terrorismo psicologico. Se la prende con la psicosomatica, in cui si afferma che le sofferenze dell’anima si trasformano in malattie punitive o autopunitive.

Si tratta, per lei, di manipolazioni dell’immaginario a scopi repressivi. Certamente nessuno più pensa che un Dio punitivo mandi i castighi sulla terra, ma qualcosa del principio di causa ed effetto rimane. Abbiamo bruciato le foreste, sparso di cemento ogni angolo della terra, abbiamo avvelenato gli ambienti con l’uso spropositato di pesticidi, abbiamo riempito il mare di plastica, abbiamo fatto estinguere tanti meravigliosi animali, abbiamo messo in pericolo l’equilibrio dell’ecosistema.

La Natura, che non è divina, ma ha tutta la potenza di una divinità cosmica, reagisce con irruenza ai maltrattamenti, anche se non si tratta di una volontà moralistica ma di un processo di autodifesa. Intanto la segregazione, a cui mi attengo per rispetto verso chi soffre e chi rischia la vita, mi costringe a una solitudine pensosa. Le giornate fatte di gesti ripetuti, scandite da passi uguali, diventano sempre più corte.

Ormai la mia vita si svolge fra cucina e studio, studio e camera da letto, cucina e terrazzino, cucina e studio. Finché scrivo va tutto bene, ma quando smetto e devo cucinare per me stessa, mi viene la malinconia. E non potendo uscire per prendere un caffè al bar, tiro fuori la vecchia macchinetta arrugginita e la riempio di una polvere di caffè che sta nel frigorifero da mesi e ha perso tutto il suo sapore.

Comincia a serpeggiare l’idea che l’epidemia non finirà così presto come si immaginava, poiché il numero degli ospedalizzati, degli intubati e dei morti continua a moltiplicarsi. E che ne sarà del nostro futuro? Qualcuno ritiene che questo grande male migliorerà gli italiani viziati da tanti anni di pace, di benessere e di noia. Nei momenti di pericolo, dicono, il nostro Paese dà il meglio di sé. Un amico mi scrive dal Messico: per la prima volta mi sento orgoglioso di essere italiano, dice.

Molti giornali latino-americani hanno parole di simpatia e di ammirazione per il nostro Paese che si sta comportando con coraggio e lealtà. Possibile che siamo sempre noi ad autofustigarci,acriticarci, a inveire contro noi stessi? Le bandiere ai balconi mostrano questo orgoglio nazionale che timidamente si fa luce e per una volta non solo legato al mondo del calcio o delle destre estreme. Non sono d’accordo con chi insiste sul diritto di critica a tutti i costi.

In questo momento abbiamo bisogno di puntare sulla passione, l’orgoglio e l’audacia, come scrive Giordano. Si cercano volontari per gli ospedali, per il trasporto dei contagiati e delle salme. Ormai non bastano piu nemmeno gli uomini dell’esercito. E cosa spinge i giovani a proporsi come volontari? Non certo le critiche che danno solo voglia di chiudersi in se stessi avviliti e persi, ma la presentazione di esempi di lealtà e ardimento.

Tutti parlano di guerra ma poi non vanno in prima linea a combattere, questo lo lasciano fare ai soldati semplici. Che si infettino, intanto noi dichiariamo, in nome della verità sovrana, che siamo contro qualsiasi decisione, siamo, per diritto di intelligenza, contro tutto e contro tutti. Ma in questo modo si produce sconforto e si acuisce la paura.

Abbiamo bisogno di esempi forti, di persone da ammirare e da emulare. Dobbiamo suscitare la voglia di comunità, la generosità sociale, il desiderio di essere utili e partecipi. Perché non raccontare le cose buone che stanno nascendo: l’ottima risposta degli studenti nelle lezioni da remoto, le tante iniziative per gli incontri via Skype, le offerte di concerti, letture, aiuti ai piu deboli e soli, teatro e filmati via tablet.

Tutto questo aiuta a uscire dal disastro, non la litania delle critiche fatte da chi sta alla finestra, anzi in video, a controllare e giudicare quelli che stanno in strada

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